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Chi avesse letto i principali quotidiani europei, la mattina del 12 novembre 1918, avrebbe trovato, a titoli di scatola, la notizia che, da più di quattro anni, centinaia di milioni di persone aspettavano: la guerra era finita, definitivamente su tutti i fronti.



Il lettore, però, sia che fosse un festante Francese, un Inglese o un Americano, o un esausto Italiano, sia che fosse un Tedesco o un Austroungherese, con le lacrime agli occhi ed un futuro minaccioso davanti, non avrebbe trovato, nel clamore delle prime pagine, urlate agli angoli delle strade, la notizia vera, quella importante: il necrologio dell’Europa.



Altro che secolo breve: il Novecento è stato un secolo lunghissimo, aperto dalla veglia funebre dell’Europa dei re e degli imperatori, vive ora sulle banconote da cento Euro, una moneta comune!



Eppure, senza il feroce tirocinio della Grande Guerra, non ci sarebbe neppure stato il "Novecento": probabilmente, non sarebbero esistiti gli ipernazionalismi, nati dalle insoddisfazioni di Versailles, come non ci sarebbero state le rivoluzioni, di cui quella guerra fu la levatrice, e, soprattutto, non ci sarebbe stato il ricatto economico statunitense, che nacque proprio dagli enormi vantaggi americani, dovuti ai debiti di guerra: altro che splendido isolamento!



Insomma, il Novecento non è stato un secolo di quieta transizione, con le sue quiete guerricciole e il suo quieto malessere generale, con alleanze traballanti ed incidenti internazionali mai abbastanza gravi da non essere rimediati: al posto di alcuni atroci genocidi, probabilmente, ne avremmo avuti altri; ma meno eclatanti e meno raccontati.



LA GRANDE GUERRA-la più orribile carneficina dela storia



Parte prima: da Serajevo al patto di Londra.



I primi colpi della Grande Guerra furono sparati a Serajevo, il 28 giugno del 1914.



Li sparò un giovanotto serbo, associato al gruppo nazionalista della Narodna Odbrana: Gavrilo Princip.



Bersaglio di quei colpi di pistola furono l’erede al trono absburgico, Francesco Ferdinando, e sua moglie, Sofia Chotek, che morirono entrambi.



I Serbi vedevano nell’arciduca l’incarnazione dell’odiata dottrina trialista, ossia l’idea di un’autonomia croata all’interno dell’impero, in chiave antiserba ed antislava; inoltre, Francesco Ferdinando era legato a filo doppio con il bellicoso alto comando di Baden, dominato dal generale Conrad von Hoetzendorf e da un’ammirazione sconfinata per il militarismo prussiano; tanto che, si mormora che l’anziano imperatore, Francesco Giuseppe, ostile all’idea di un conflitto, alla notizia dell’eccidio, abbia esclamato: "Poveri ragazzi; ma, in fondo, per la pace è meglio così!".



Tuttavia, la situazione precipitò, in un balletto di ambasciatori che si concluse col celebre ultimatum alla Serbia, e con la dichiarazione di guerra, un mese esatto dopo l’attentato: una versione piuttosto accreditata dei fatti è quella che indica nell’imperatore tedesco, Guglielmo II, il motore della crisi definitiva, culminata con la dichiarazione dei pieni poteri in bianco, che sanciva un’alleanza strettissima tra i due imperi centrali.



Tant’è che Guglielmo II, dopo la mobilitazione generale dell’esercito zarista, inviò già il 31 luglio un ultimatum alla Russia e alla Francia, cui fecero seguito, a stretto giro diplomatico, le dichiarazioni di guerra, rispettivamente l’1 ed il 3 di agosto.



Così, scattarono i meccanismi delle alleanze: l’Italia si dichiarò neutrale, come il Belgio (che ricevette ugualmente un ultimatum dai tedeschi il 2 agosto e venne invaso due giorni dopo); la Turchia si alleò segretamente con gli Imperi centrali e proclamò la Jihad contro l’Intesa, il 31 ottobre; l’Inghilterra scese in campo contro la Germania il 4 agosto e, dopo che l’A.U. dichiarò guerra alla Russia (6 agosto), non esitò a dichiararle guerra, insieme alla Francia (12 agosto).



I giochi erano fatti: ora toccava alle armi e non più agli ambasciatori far sentire la voce dei vari stati belleigeranti.



Il creatore del piano strategico germanico in chiave anti francese era un anziano generale, che stava morendo proprio in quei giorni: Von Schlieffen.



Questo piano prevedeva l’invasione del nord- est francese, con per obiettivo l’isolamento di Parigi, passando attraverso il Belgio; il piano era brillante, ma c’era bisogno di due cose perché funzionasse: un’azione a tenaglia in cui il lato destro fosse fortissimo, per compiere l’aggiramento e tagliare in due lo schieramento anglo-francese, ed una grande velocità di esecuzione.



Solo che, nel 1914, pur spostando velocemente le truppe alle frontiere, grazie alla loro eccellente rete ferroviaria, i tedeschi non disponevano di mezzi di trasporto celeri durante l’attacco; le truppe ed i pesanti carriaggi d’artiglieria procedevano molto lentamente, una volta effettuato lo sfondamento: furono i carri armati che permisero ad Hitler di perfezionare quello che Schlieffen aveva progettato, cioè la Blitzkrieg!



Per questo, i franco-britannici ebbero il tempo di riorganizzarsi, dopo il primo shock, e di arrestare le armate tedesche , contrattaccandole, fino a giungere su quelle posizioni che resteranno in gran parte invariate per tutto il conflitto.



In effetti, nella prima decade di settembre 1914, avvenne quello che fu, poi, definito da molti "il miracolo della Marna", quando le, apparentemente inarrestabili truppe germaniche, furono fermate sulla via di Parigi da una robusta battaglia d’arresto sul fiume sacro ai Francesi; il miracolo, però, è spiegabilissimo in termini militari: oltre a quanto già scritto, è certo che i Tedeschi, ad un certo punto, temettero di indebolire troppo il fianco sinistro a favore del destro, e non diedero quella spinta vigorosa da nord che Schlieffen aveva raccomandato per il buon esito del suo piano.



La volontà granitica di resistere e di non ripetere un’altra Sedan da parte dei Francesi e il sacrificio terribile del vecchio esercito professionale inglese (che ne uscì distrutto, tanto che anche l’Inghilterra, in seguito a ciò, adottò la leva di massa), che si dissanguò per un mese nelle Fiandre, allo scopo di contendere ai germanici lo sbocco al Pas de Calais, che avrebbe segnato il culmine dell’aggiramento (18 ottobre-15 novembre) , fecero il resto.



Nasceva un nuovo tipo di guerra, la guerra di posizione, basata su difese campali articolate e profonde, con fasce di filo spinato larghe centinaia di metri, un’enorme quantità di pezzi d’artiglieria, e un sostanziale prevalere della difesa sull’attacco, grazie alle nuove armi a tiro rapido, le mitragliatrici, che, con l’artiglieria pesante, saranno l’arma simbolo della Grande Guerra.



Il passo successivo sarà, come vedremo, la guerra d’attrito, in cui le battaglie serviranno, non a conquistare un successo definitivo, ma a consumare ferocemente le risorse materiali ed umane dei contendenti, per ottenere il dissanguamento dell’avversario.



Sul fronte orientale, invece, i grandi spazi e le caratteristiche degli eserciti contrapposti permisero vasti movimenti di truppe.



Inaspettatamente, i russi, comandati da Samsonov e Rennenkamp, attaccarono con successo la Prussia orientale, costringendo al ripiegamento i tedeschi e creando sconcerto, se non panico, a Berlino; poi, il provvidenziale intervento di Ludendorff, del suo vice Von Hindenburg, e, soprattutto, di un valente generale che avrebbe fatto carriera, Von Below, che inconteremo di nuovo come comandante generale a Caporetto, permisero di capovolgere la situazione, passando l’iniziativa ai tedeschi, che l’avrebbero poi sempre mantenuta.



Le armate germaniche inflissero una sconfitta spaventosa alle truppe zariste, in quella battaglia dei laghi Masuri, che i tedeschi ricordano come battaglia di Tannenberg, per associarla alla battaglia combattuta in quei luoghi nel XV secolo dai cavalieri teutonici: ad un certo punto, era tale la mattanza delle truppe russe, in fuga lungo le sottili lingue di terra tra una palude e l’altra, che molti artiglieri tedeschi sospesero il fuoco.



Intanto, gli Austriaci faticavano, alle prese con il combattivo esercito serbo e con la minaccia russa in Galizia, tanto che, ad un certo punto, i tedeschi dovettero distogliere truppe dal settore settentrionale del fronte per appoggiare l’alleato in difficoltà, intorno alla fortezza, persa e poi ripresa, di Premzyl.



Alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, nulla si era deciso, ad Ovest come ad Est, ma erano ugualmente già cadute centinaia di migliaia di uomini: gli italiani mostrarono di non saper fare tesoro dell’esperienza già maturata nel primo anno di guerra, e questo come vedremo, avrebbe causato loro problemi a non finire.



I Fronti.



Per comprendere il meccanismo dei vari fronti, è utile immaginarli come delle porte girevoli, nelle quali, data l’estensione dei territori, alla spinta in un settore corrispondeva, quasi sempre, un atteggiamento difensivo nell’altro: fu così sul fronte occidentale, dove a nord era maggiore la pressione tedesca, mentre, verso sud, in Alsazia, i Francesi avevano un’impostazione decisamente offensivista; lo stesso dicasi per il fronte orientale, coi Russi aggressivi in Galizia e pesantemente sconfitti in Masuria e sul Baltico; non si sottrasse alla regola neppure il fronte meridionale, cioè quello italiano, con una forte spinta offensiva austroungarica nel settore trentino, cui corrisposero le undici battaglie dell’Isonzo, intorno a Gorizia e a Trieste, in cui gli Italiani furono perennemente all’attacco.



Naturalmente, stiamo parlando di grandi tendenze: è chiaro che, all’interno del sistema difesa-attacco, sussistevano operazioni di carattere tattico, e anche di notevole importanza, che smentivano la tendenza strategica generale; tuttavia, è opportuno tenere presente questo schema, se si vuole avere un’idea abbastanza attendibile dei meccanismi che sovrintendevano all’attegiamento dei vari eserciti.



A questo si aggiunga che, da un certo momento in poi, le offensive dell’Intesa vennero pianificate da un’apposita conferenza interalleata, anche in funzione dell’alleggerimento di settori posti sotto pressione: così, ad esempio, se gli Italiani erano alle strette in Trentino, i Russi scatenavano un’offensiva in Galizia che distogliesse truppe austriache dal fronte meridionale, permettendo agli alleati di riorganizzarsi.



Il fronte italiano, di cui ci occuperemo nel dettaglio nel secondo inserto dedicato alla Grande Guerra, aveva caratteristiche del tutto particolari; esso si trovava, per buona parte, in territori impervi, con quote spessissimo superiori ai duemila metri, e con linee di rifornimento problematiche.



L’unico settore paragonabile a quello italiano, fu quello dei Carpazi, in cui le truppe austroungariche pagarono un pesante tributo di sangue, del quale resta memoria, per esempio, nella celebre canzone composta dai trentini che combattevano nell’esercito imperialregio e intitolata "I monti Scarpazi"; per il resto, i fronti correvano in pianura o, tutt’al più, su piccoli rilievi, onorati dell’appellativo di Quote dalla toponomastica militare, come nel caso di Quota 304, a Verdun.



L’Italia.



Dallo scoppio delle ostilità all’entrata in guerra dell’Italia, come è noto, trascorsero dieci mesi, che furono piuttosto turbolenti: erano appena finiti gli scioperi della Settimana Rossa (giugno 1914) e l’Italia si era dichiarata neutrale, a differenza di Mussolini, che, per questo, era stato espulso dal Psi ed aveva fondato "Il popolo d’Italia".



I diplomatici italiani, da subito, si erano messi alla finestra, per cercare sul mercato del "do ut des" il miglior offerente: dapprima, pareva che si dovesse trattare dell’Austria, in base a quell’articolo della Triplice Alleanza che prevedeva compensi territoriali per l’Italia in caso di un’espansione asburgica, non concordata, nei Balcani.



In seguito, si fece sempre più consistente, nonostante le indefesse manovre dell’ambasciatore tedesco Von Bulow presso il ministro di San Giuliano, l’ipotesi di un intervento a favore dell’Intesa, dietro precise concessioni territoriali, che l’Italia specificò in un memorandum consegnato al Foreign Office, nel marzo del ’15.



Si giunse, infine, alla firma del patto segreto di Londra (26 aprile), in cui l’Italia si impegnava ad entrare in guerra entro un mese a fianco dell’Intesa, in cambio dell’annessione di Trentino-Alto Adige, Trieste, Istria, Isole Dalmate, Valona e Dodecaneso, in caso di conclusione vittoriosa del conflitto: le manifestazioni neutraliste ed interventiste contarono certamente meno di questa allettante prospettiva; una volta di più, la real politik aveva il sopravvento su qualsivoglia utopia!



Prova ne sia il fatto che il blocco neutralista era di gran lunga il più numeroso, anche se, forse, non il più rumoroso, nello scenario politico del 1915; e, nonostante ciò, si entrò in guerra.



Contò, senz’altro, di più l’asta dei territori, che vide prevalere l’Intesa, dei discorsi (peraltro tardivi) di D’Annunzio; quelli, semmai, servirono a circondare di un alone risorgimentale le manovre di bottega dei nostri politici.



Probabilmente, il primo colpo di cannone fu sparato dai forti italiani degli altopiani di Lavarone e Folgaria: da allora, le armi non tacquero un solo giorno, per più di quaranta mesi, fino al silenzio incredulo di quel pomeriggio del 4 novembre 1918.



In questo primo inserto, eviteremo di occuparci nello specifico, se non per le sue relazioni con gli altri fronti, della guerra sul fronte italiano, cui è dedicato, come abbiamo detto, il secondo inserto; non ci si stupisca, pertanto, di non trovare menzione degli avvenimenti che riguardino il nostro Paese in guerra nelle prossime pagine: se ne parlerà diffusamente a suo tempo.



Da Ypres all’entrata in guerra degli Usa.



Nell’andamento, tutto sommato, monotono del massacro quotidiano sul fronte occidentale, si devono registrare dei picchi, in corrispondenza con i vari reciproci tentativi di scardinare il dispositivo delle difese avversarie; questi picchi rappresentano, oggi, delle cifre impressionanti nel conteggio delle perdite, ma, molto di più, significano, nei ricordi dei sopravvissuti, un orrore inimmaginabile.



Una storiografia basata sul calcolo statistico, non potrà mai descrivere la tragedia infinita di Verdun o della Somme: si potà dire dei milioni di proiettili d’artiglieria tuttora non recuperati (e onorare gli eroici démineurs francesi, che ancora oggi pagano un pesante prezzo alla bonifica dei campi di battaglia), delle centinaia di migliaia di cadaveri mai trovati, dei colpi sparati, dei feriti e dei mutilati; ma questo non servirà a comprendere l’incubo che avevano negli occhi i reduci di queste battaglie terrificanti.



Nel 1915, l’orrore della guerra comincia ad assumere caratteri nuovi e peculiari: inizia l’attacco sottomarino tedesco ai trasporti nemici, nel tentativo di fiaccare la resistenza dell’avversario e di controbilanciare la potenza britannica in termini di marina di superficie; proprio in questo contesto avverrà, il 7 maggio, l’affondamento, al largo dell’Irlanda, del transatlantico inglese "Lusitania", con 124 americani tra le vittime: questo, negli Stati Uniti, sarà uno degli argomenti principali dei sostenitori dell’ingresso degli Usa in guerra al fianco dell’Intesa.



A Ypres, in aprile, vi sarà il primo massiccio attacco con i gas da parte dei tedeschi, sia sulle linee inglesi che su quelle francesi, a distanza di pochi giorni: di qui proviene il nome dato a quel gas, la cosiddetta Iprite, che inaugurò la stagione dei grandi attacchi con gas asfissianti e vescicanti, come il fosgene o il gas mostarda, che anche sugli altri fronti semineranno morte e panico.



Più o meno nello stesso periodo, gli inglesi sperimenteranno la prima operazione di sbarco militare, mandando i soldati dell’Anzac (Australian and New Zealand Army Corps) a farsi macellare sulla penisoletta di Gallipoli, in Turchia.



Archiviata come uno dei più scalcinati attacchi di tutta la guerra, l’impresa di Gallipoli aveva l’obiettivo di eliminare il sistema di forti che impedivano l’accesso ai Dardanelli, in modo da ottenere quel passaggio che le navi da guerra inglesi non erano riuscite ad aprirsi coi loro cannoni, riportando, invece, seri danni.



Mal concepita e peggio condotta, la campagna che si protrasse per ben otto mesi, dall’aprile del ’15 al gennaio del ’16, vide tutta una serie di assalti sanguinosi ed improvvisati alla linea trincerata turca, che portarono solo ad uno stallo, la cui unica soluzione fu, alla fine, evacuare la penisola; se vi fosse stato, viceversa, un deciso attacco di sorpresa, mentre le difese turche non si erano ancora potute organizzare, probabilmente l’operazione sarebbe riuscita, senza le enormi perdite subite dai valorosi Anzacs.



Questo, tuttavia, era solo l’inizio: il 1916 assistette agli scontri, forse, più spaventosi dell’intero conflitto.



Tra il febbraio ed il dicembre del’16, a Verdun, nella Woevre, francesi e tedeschi si contesero pochi chilometri quadrati, al prezzo mostruoso di 700.000 morti.



Il generale Von Falkenhain, aveva concepito un piano feroce: si trattava di creare un saliente nel punto focale delle difese nemiche, il vasto sistema di forti intorno a Verdun, sulle rive della Mosa, in modo che i Francesi, non potendo ritirarsi, poiché questo avrebbe messo in crisi l’intero fronte, dovessero gettare nella battaglia risorse sempre maggiori, fino al dissanguamento del loro esercito; questa fu la guerra d’attrito.



In effetti, l’esercito francese non si sarebbe mai più ripreso dal tremendo salasso: i suoi effettivi non sarebbero più tornati al numero di prima del febbraio del ’16.



Nel pieno della battaglia, lungo la strada di rifornimento tra Verdun e Bar le Duc (la Voie Sacrée), ogni giorno passava un’intera divisione francese, che, il giorno dopo veniva sostituita, poiché aveva cessato di esistere.



Il cimitero di Douaumont, con la sua tetra torre, resta a testimonianza e monito di quel dramma gigantesco.



Alla fine, grazie soprattutto al valoroso comando e alla volontà di resistere del generale Pétain (fu lui a scrivere il celebre ordine del giorno "On les aura"), i Francesi conservarono il possesso della cittadina; il prezzo pagato dai contendenti fu, tuttavia, esorbitante.



Dopo la battaglia navale dello Jutland (31 maggio), la situazione nel Mare del Nord e nel Baltico rimase sostanzialmente stazionaria: le corazzate di Von Tirpitz non erano riuscite a sconfiggere la Home Fleet inglese ed erano tornate nei loro porti per non uscirne, praticamente, più; l’Inghilterra vinse la guerra dei blocchi e la Germania cominciò a boccheggiare per la mancanza di rifornimenti via mare.



Tra il giugno ed il novembre del 1916, sul fiume Somme, i tedeschi attaccarono e furono, poi, contrattaccati da inglesi e francesi; il risultato fu insignificante in termini territoriali, mentre i morti furono circa un milione, tra cui più di 400.000 britannici: ormai la guerra aveva raggiunto tali livelli nelle perdite, che le nazioni belligeranti non avrebbero potuto reggere a lungo a questi ritmi.



Intanto, alla fine dell’anno, fecero la loro comparsa nelle Fiandre i Mk1, i primi carri armati inglesi , che, però, furono usati a spizzichi, e sempre a ruota delle fanterie: pochi ne intravvedevano le immense potenzialità.



In realtà, quello era il mezzo per uscire dallo stallo della guerra di trincea, a patto di gettarne nella mischia masse numerose in un solo attacco, come avvenne ad Arras, su piccolissima scala; solo che nessuno se n’era ancora accorto.



Mentre gli austriaci avanzavano in Trentino, in seguito alla Strafexpedition (maggio 1916), il generale russo Brussilov sfondava le linee austriache ad est e procedeva per centinaia di chilometri, facendo prigionieri interi corpi d’armata.



Questa, che diede una mano ai nostri soldati che difendevano la linea di massima resistenza, sull’Altopiano dei Sette Comuni, fu l’ultima iniziativa vittoriosa dell’esercito zarista, che, di lì a poco, sarebbe scomparso nel vortice della rivoluzione.

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IL FRONTE ITALIANO

Lo scoppio della guerra



Abbiamo già detto delle ragioni che portarono l’Italia ad aderire all’Intesa, e che, in sostanza, fanno riferimento alle appetitose offerte territoriali messe sul piatto dalla diplomazia inglese e francese, che portarono alla firma del patto segreto di Londra, del 26 aprile 1915, perciò non torneremo sull’argomento.



Questa nostra disamina, forzatamente molto succinta, prenderà perciò le mosse dallo scoppio della guerra sul fronte italiano, partendo, necessariamente, dalle condizioni in cui il nostro Paese entrò in guerra.



Giova premettere che l’Italia, alla vigilia della Grande Guerra, era ancora un paese diviso etnicamente e geograficamente, le cui componenti si sarebbero conosciute e, forzatamente, frequentate da vicino, proprio nelle trincee; a questo si aggiunga che l’idea di intervento, di santità della guerra e di redenzione di Trento e Trieste era sviluppata soprattutto nelle classi borghesi, mentre trovava piuttosto indifferenti le vaste plebi contadine della Penisola.



Di fatto, perciò, fu la gioventù colta e benestante che diede il maggior impulso alle manifestazioni antigiolittiane della vigilia; e, per amor di verità, bisogna dire che fu anche la classe sociale che pagò, in proporzione, il prezzo più alto della guerra: i giovani ufficiali di complemento, nutriti di garibaldinismo e di retorica patriottica, si fecero massacrare alla testa delle proprie truppe nelle prime, sconsiderate, offensive di Cadorna, privando, in breve, l’esercito di validi ufficiali subalterni.



Quando l’Italia entrò in guerra, il 24 maggio del ’15, il conflitto sui fronti occidentale ed orientale durava ormai da quasi un anno; ciò nonostante, gli alti comandi italiani non fecero affatto tesoro di quello che i tremendi massacri dei primi mesi di guerra avevano insegnato sulla pericolosità delle armi automatiche, sull’inutilità degli attacchi a ranghi serrati contro le trincee ed i reticolati, sulla preparazione d’artiglieria: la regola unica del nostro esercito pareva quella di attaccare, di "sfondare coi petti i reticolati".



Certamente, l’assetto delle truppe italiane, almeno fino alla fine del ’17, non poteva che essere offensivo; tuttavia, i concetti ispiratori di questo offensivismo, provenivano da un libretto edito dal Cadorna dieci anni prima della guerra, che indicava le "direttive per l’attacco frontale", e che, per ragioni, diciamo così, anagrafiche, non teneva punto conto di quanto successo negli ultimi dieci anni.



Lo stesso Cadorna, d’altra parte, si accingeva ad andare in pensione, quando l’improvvisa morte del generale Pollio, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito (d’ora in poi, CSM), lo vide proiettato al comando supremo, il 27 luglio del 1914; Pollio, per inciso, era stato un obiettivo giudice delle nostre capacità militari, definendo più volte "grandioso"lo sforzo che sarebbe stato necessario all'Italia per mettersi alla pari delle altre potenze europee: questo sforzo sarebbe durato quattro anni e sarebbe costato 650.000 morti.



Di fatto, all’Italia mancavano armi moderne: le mitragliatrici inglesi Maxim arrivavano col contagocce, mentre le Fiat uscirono di fabbrica dal maggio del’15 al ritmo di 50 al mese!



L’esercito italiano mancava dunque di quelle armi automatiche che avevano fatto la differenza sul fronte francese: il 24 maggio del 1915 ne possedeva soltanto 618 per dieci corpi d’armata.



I grossi calibri d’assedio, se escludiamo le vecchie ed usurate batterie da costa riattate, erano praticamente assenti, mentre i calibri da campagna, piccoli e medi, erano spesso obsoleti pezzi ad affusto rigido, di ghisa o, qualche volta, addirittura di bronzo, che dovevano essere ripuntati dopo ogni colpo, e con cadenze di tiro da guerra napoleonica.



Le bombarde, tanto utili per spianare i reticolati, entreranno in funzione dal 1916, così come gli elmetti in acciaio di tipo ‘Adrian’, originariamente acquistati dalla Francia.



Insomma, il nostro Paese entrava in guerra con un esercito disomogeneo, male armato e peggio comandato: c’erano tutte le premesse per un disastro.



Se non che l’Austria –Ungheria (d’ora in poi, A.U.), impegnata duramente dai Serbi e dai Russi, stava peggio di noi, almeno per quel che riguarda le risorse umane, visto che alcune zone del fronte, nel maggio del ’15, erano del tutto sguarnite, o difese da reparti di anziani territoriali della Landsturm; bisogna però dire che gli A.U. potevano contare su di una linea difensiva vantaggiosissima, su di un buon numero di ottime mitragliatrici Schwarzlose e su di un’artiglieria efficiente; oltre che sul loro innato spirito bellicoso.



Tuttavia, se le nostre truppe avessero attaccato vigorosamente durante la prima settimana di guerra, avrebbero trovato ben poca resistenza tra loro e il cuore della monarchia danubiana; solo che non attaccarono, e questo diede agli A.U. il tempo di fare affluire truppe, di organizzare le difese, e di ottenere un consistente aiuto dall’alleato germanico, che inviò il poderoso Alpenkorps del generale Krafft von Dellmensingen nel Tirolo.







curiosità .

In un libello del 1914, un capitano di vascello italiano, esperto d’artiglieria, ironizzò sulla notizia del possesso di obici e mortai di calibro pesantissimo (42 cm.) da parte degli Imperi Centrali, che definì "fantastica"; si dovette ricredere quando anche sul fronte italiano cominciarono a piovere 420 da una tonnellata e mezzo: questo la dice lunga sugli esperti del nostro Paese, di ieri e di oggi.



L’Italia non era ufficialmente in guerra con la Germania nel 1915 (la dichiarerà il 9 agosto 1916), perciò i soldati tedeschi, ufficialmente, non esistevano e si faceva finta di non accorgersi dei loro morti e dei loro prigionieri; la prima prova della presenza dell’Alpenkorps sul nostro fronte fu il ritrovamento da parte di una pattuglia italiana di una cartolina in franchigia di un fante bavarese, che il proprietario aveva usato per pulirsi dopo aver fatto i suoi bisogni e poi aveva gettato: debitamente conservata, essa giunse al Q.G. italiano in una busta.







Le spallate di Cadorna.



Dopo Caporetto, i nostri soldati cantavano: "Il general Cadorna è proprio un gran portento, con undici spallate ha preso il Tagliamento!".



L’amara ironia dei nostri fanti sintetizza perfettamente il senso della gestione, a dir poco antieconomica in termini di vite umane, della guerra da parte del generalissimo.



Immaginandoci che il fronte italiano sia stato come una grande S rovesciata su di un fianco, appare chiaro che là dove l’ansa affonda in territorio italiano (saliente trentino), le nostre truppe dovettero assumere ben presto atteggiamento difensivo; e che, viceversa, dove l’ansa si protende verso nord (saliente isontino) fu gettato il maggior peso offensivo della guerra.



Da questa semplice considerazione di carattere geografico nasce la teoria cadorniana delle "spallate", ossia di una serie di offensive che portassero gli A.U. a combattere con le spalle al muro: per capirne appieno il senso, vi rinviamo a quanto scritto nel numero scorso sulla guerra d’attrito.



Obiettivi di queste offensive erano, dapprima, la valle della Drava, il campo trincerato di Gorizia e la destra Isonzo, e, in proiezione, Villach, Lubiana e Trieste.



In pratica, però, gli attaccanti si trovavano di fronte montagne altissime, su cui gli A.U. si erano trincerati abilmente, oppure il terribile bastione rappresentato dal Carso.



Fin dalle prime scaramucce, si comprese che la tanto vagheggiata guerra di posizione doveva lasciare il posto alle terrificanti carneficine della guerra di trincea; e contro le trincee si lanciarono per undici volte, dal giugno del’15 al settembre del ’17, i disperati tentativi della nostra fanteria, che, il più delle volte, si arenarono contro reticolati intatti o contro lo sbarramento delle mitragliatrici.



Riassumendo, in estrema sintesi, le undici battaglie dell’Isonzo furono:



23giugno-7 luglio 1915 con obiettivo il M. Kuk e la zona Oslavia-Podgora : progressi minimi con 15.000 perdite per gli Italiani e 10.000 per gli A.U.



20 luglio-3 agosto 1915, stessi obiettivi, cioè la testa di ponte di Gorizia, progressi minimi, con 42.000 perdite per gli Italiani e 50.000 per gli A.U.



21 ottobre-4 novembre 1915, stessi obiettivi da Plava al mare, in particolare Oslavia e il M. San Michele, con risultati scarsi; perdite italiane 67.000, A.U. 42.000.



10 novembre-28 novembre 1915, stessi obiettivi, dal Sabotino al mare, risultati insignificanti, con 49.000 perdite italiane e 25.000 A.U.



11 marzo-15 marzo 1916, stessi obiettivi (ma in realtà sotto la spinta del II convegno interalleato, dopo Verdun), nessun progresso; 2.000 perdite per parte.



4 agosto-16 agosto 1916, stessi obiettivi, conquista della testa di ponte di Gorizia, notevole avanzata oltre Isonzo; perdite italiane 51.000, A.U. 37.500.



14 settembre-17 settembre 1916 obiettivo il carso yugoslavo verso Castagnevizza, progressi minimi, 21.000 perdite italiane e circa 20.000 A.U.



10 ottobre- 11 ottobre 1916, prosecuzione della VII battaglia, 24.000 perdite per gli Italiani e 25.000 per gli A.U.



1 novembre-3 novembre 1916, di nuovo l’asse Oppachiasella-Castagnevizza, con progressi interessanti in proiezione, perdite italiane 34.000, A.U. 22.500



12 maggio-26 maggio 1917, obiettivi i monti Kuk, Santo, San Gabriele, San Marco e, verso Trieste, l’Hermada; creazione dei presupposti per investire la Bainsizza e il Vallone di Chiapovano, perdite italiane 112.000, A.U. 76.000.



17 agosto- 29 agosto 1917, obiettivi: la testa di ponte di Tolmino, il Vallone, Bainsizza, San Gabriele, Ternova e valle del Vipacco, conquista di una parte della Bainsizza, ma non del San Gabriele e dei Lom di Tolmino, perdite italiane 143.500, A.U. 85.000



Apparentemente, come controparte di queste terribili carneficine, non vi fu che la conquista di pochi chilometri quadrati di territorio brullo, di cui l’Italia poteva largamente fare a meno; in realtà, però, questa strategia aveva un suo senso.



Scrive, per esempio, Fritz Weber, artigliere nella Grande Guerra e grande storico austriaco, che, alla vigilia di Caporetto, le truppe imperiali erano talmente esauste e costrette a combattere col vuoto alle spalle, da renderlo certo che un ulteriore attacco italiano avrebbe, finalmente scardinato l’impianto difensivo della Isonzoarmee: proprio per questo, come vedremo, si decise la XII battaglia dell’Isonzo, quella che noi conosciamo col nome di Caporetto.



Quel che si contesta al Cadorna è, piuttosto, l’ottusità con cui questo piano strategico venne perseguito: se la guerra su tutti i fronti aveva dimostrato che gli attacchi avevano qualche possibilità di successo solo se effettuati in una parte ristretta di fronte, con un’unica breve e violentissima preparazione d’artiglieria, e con uno scatto di piccoli gruppi di fanteria d’assalto (come avvenne con successo nel caso del Sabotino, durante la VI battaglia, peraltro) che aprissero la via ad una penetrazione massiccia, il CSM si ostinava, invece, a fare eseguire attacchi su tutto il fronte, disperdendo le forze, le artiglierie e perdendo l’effetto sorpresa.



Un esempio macroscopico di quanto scrivo fu rappresentato dagli Arditi, specialità d’assalto, creata dal maggiore Messe e che operò dal ’17 in poi: questi combattenti, motivatissimi e superaddestrati, venivano trasportati coi camion nei punti più caldi del fronte, dove intervenivano di concerto con le artiglierie, avanzando durante l’allungamento dei tiri di distruzione, fino a conquistare le trincee ed i capisaldi, in cui sorprendevano i nemici, che non avevano ancora lasciato i ricoveri; di solito essi venivano utilizzati a compagnie o, al massimo, a Reparti (circa l’equivalente di un battaglione), ma ottenevano risultati che non si erano ottenuti precedentemente con un enorme dispendio di vite (S.Gabriele, Col Moschin).



Nonostante tali e tante ragioni che avrebbero dovuto convincerlo della assurdità delle sue convinzioni, Cadorna continuò, fino a quando non venne sostituito al comando, il 9 novembre del ’17, a lanciare divisioni su divisioni contro ostacoli insormontabili, gettando le premesse della grande crisi che l’esercito attraversò quando più avrebbe dovuto essere saldo.



Di più: Cadorna, a disastro avvenuto, non trovò di meglio che accusare di tradimento truppe del tutto incolpevoli (anche se, dopo il primo comunicato dell’agenzia Stefani, corresse il tiro), minimizzare per quanto possibile l’accaduto, e continuare a sostenere la bontà del suo operato nei numerosi memoriali che produsse e pubblicò.



Quanto costarono alle generazioni nate tra il 1880 ed il 1898 le teorie di Cadorna è testimoniato dai terribili monumenti dedicati a quel sacrificio: Oslavia, Redipuglia, Castel Dante, Asiago, Monte Grappa, Pian delle Fugazze, Pocol, Salesei, Caporetto…







curiosità.



Enrico Toti, medaglia d’oro al valor militare, immortalato in divisa da bersagliere da una tavola celeberrima di Beltrame mentre, privo di una gamba, lancia la stampella contro il nemico, non era affatto un bersagliere, e nemmeno un soldato.



Egli aveva perso la gamba anni prima in un incidente sul lavoro, e da allora campava girando il mondo con una bicicletta senza un pedale, esibendosi come fenomeno da baraccone.



Essendo un originale, si fissò nella volontà di partecipare alla guerra, e divenne una specie di mascotte delle truppe, tanto che gli fu data anche una divisa, ma senza mostrine, e con la raccomandazione di non stare in prima linea durante le azioni.



Nel 1916, ormai popolare tra i combattenti del Carso, pare si fosse sporto ad insultare il nemico, alcuni dicono ubriaco, e un cecchino lo centrò.



Il resto è pura invenzione pubblicitaria.







Caporetto.



Ancora oggi, a 83 anni di distanza, ci si interroga sulle ragioni che portarono al disastro di Caporetto: come fu possibile che un esercito temprato ormai da due anni e mezzo di guerra spaventosa, con una massa d’artiglieria possente e per la maggior parte incavernata, con in prima linea sulle direttrici dell'attacco sei robusti corpi d’armata (II, VIII, XXVII, IV, VII e XXIV) e, soprattutto, con in mano i piani dettagliati dell’offensiva avversaria, forniti da ufficiali disertori romeni, nei quali cui si indicava perfino l’ora dell’inizio del fuoco di distruzione, abbia ceduto di schianto in modo così impressionante?



Le ragioni, come vedremo, sono diverse; ma, prima, è necessario chiarire che Caporetto non fu l’unico o il più terribile disastro patito da un esercito durante la Grande Guerra (si pensi all’Aisne, alla Somme, a Tannenberg, a Gallipoli ): un gusto tutto italiano di esaltare le proprie magagne, da un lato, e l’enfasi che fu data all’estero alla sconfitta (e all’importanza, enormemente sopravvalutata, degli aiuti anglo-francesi all’Italia), che gettò le basi per la cosiddetta "vittoria mutilata", dall’altro, crearono l’iperbole di Caporetto.



Già nella conferenza interalleata di peschiera, l’8 novembre del ’17, si diceva che l’esercito avrebbe potuto resistere: esiste perfino un appunto del maresciallo francese Foch in cui si sottolinea che la sola 2a armata dovesse considerarsi perduta.



Peccato che, in quella stessa conferenza, i nostri alleati ribadirono la loro intenzione di "preservare" le proprie truppe sul fronte italiano: un gran bel sistema di fare la guerra; soprattutto se pensiamo ai garibaldini delle Argonne , o alle migliaia di morti italiani, caduti a Bligny per difendere la Francia!



Ma veniamo ai fatti, che, per ragioni di spazio, dovremo sintetizzare al massimo.



Nella seconda metà del 1917, l’esercito russo non aveva praticamente più capacità bellica: questo permise ai germanici di sottrarre al fronte orientale un cospicuo numero di divisioni.



Date le pressanti richieste del nuovo imperatore d’Austria, Carlo, che continuava a domandare aiuti al Kaiser, fu creata un’armata, agli ordini del valentissimo generale Von Below, allo scopo di ricacciare gli Italiani sulle posizioni del 1915.



L’impresa di giungere al Tagliamento, pareva impossibile, tant’è che lo stesso generale Boroevic commentò l’intenzione espressa dai comandi tedeschi con un eloquente: "Non ci riuscirete mai!"; tuttavia, l’operazione fu preparata con grande cura e dispiego di mezzi, portati in linea lungo le strette e tortuose rotabili di Vrsic e Most na Soci, o per mezzo della ferrovia che collega Jesenice a Tolmino.



Per aprire la strada agli attaccanti nella conca di Plezzo, fu fatto arrivare al fronte anche uno speciale battaglione lanciagas, che piazzò centinaia di tubi lanciagranate sulle pendici del Ravelnik, di fronte alle linee italiane: i reparti che Cadorna additò al pubblico disprezzo, accusandoli di resa al nemico, erano, in realtà stati sterminati dal gas mostarda; i "traditori" di Plezzo erano caduti al loro posto, dal primo all’ultimo!



La mattina del 24 ottobre 1917, l’alta valle dell’Isonzo era piena di nebbia, ed il tempo era freddo e piovoso.



Nonostante che conoscessero l’ora dell’inizio dei tiri nemici, gli artiglieri italiani restarono silenziosi, quando una valanga di fuoco si abbattè sulle prime linee e poi avanzò a sconvolgere le retrovie: il CSM era stato chiarissimo, quando aveva intimato di non sparare fino a che ciò non venisse esplicitamente ordinato.



Solo che, sotto un simile uragano di ferro, le linee telefoniche saltarono subito; i segnali ottici non servirono a nulla nella nebbia e nel fumo, e i portaordini non portarono nessun ordine, per la semplice ragione che morirono quando cercarono di attraversare la cortina di sbarramento.



In realtà, il tiro di contropreparazione sarebbe dovuto iniziare prima e non dopo quello austrotedesco (il che, quando accadde, come nella battaglia del Solstizio, azzerò le possibilità di successo dell’attacco), dato che tutte le informazioni indicavano un ammassamento di truppe d’assalto assai a ridosso della prima linea e, quindi, poco protette da un efficace sbarramento d’artiglieria: prevalse la paura del siluramento, più forte di qualunque altra considerazione logica o strategica.



Badoglio, sempre lui, dopo che fu il principale esecutore dell’ordine di Cadorna che imbavagliò le artiglierie, fu per buona pezza irreperibile; Capello, dopo giorni di farneticazione su controffensive strategiche, si diede malato, e gli austrotedeschi passarono.



A Caporetto c’era (sembra incredibile) un solo ponte sull’isonzo; e fu fatto brillare anzitempo, condannando intere divisioni alla cattura.



I cannonieri del Kolovrat e del Matajur videro truppe incolonnate che percorrevano a ritroso la valle, in direzione Caporetto; l’eventualità che si trattasse di nemici apparve loro tanto inverosimile che li lasciarono passare: da tanto lontano era facile confondere il grigioverde col feldgrau!



Nel frattempo, il comandante di quel corpo d’armata, generale Bongiovanni, nemmeno sapeva che le sue truppe erano impegnate in combattimento!



Per farla breve, gli austrotedeschi dilagarono per la val Natisone e la valle dell’Isonzo, in mezzo a resistenze eroiche e a grottesche inadempienze dei comandi: Cadorna scriveva alla Stefani il comunicato infame di cui ho già detto, e il Colonnello Gatti, suo biografo, scriveva nel suo diario: "E’ un sogno!".



Si retrocedette la linea al Tagliamento, che, per fortuna, era in piena e ritardò l’avanzata delle divisioni Edelweiss e Jaeger tedesche, poi, al Piave, in una ritirata a tratti ordinata ed a tratti apocalittica; il generale Di Giorgio, quello dell’Ortigara, comandò un gruppo speciale, che coprì la ritirata e ci salvò dal disastro totale.



Sul Piave e sul Grappa (dove le truppe del neodecorato ‘Pour le mérite’ tenente Rommel, conquistatore del Matajur, ebbero modo di spuntarsi le corna contro i battaglioni alpini), sulle Melette e sui tre monti, nell’altopiano dei Sette Comuni, si combattè una terribile battaglia d'arresto, che durò, in pratica, fino al febbraio del 1918; ma, alla fine, l’esercito si consolidò, e la bilancia cominciò a pendere dalla nostra parte: paradossalmente, il nuovo fronte significava linee di rifornimento più facili, lunghezza delle linee molto inferiore; e, soprattutto, un poderoso stimolo per l’innata combattività che dimostrano gli Italiani quando combattono per difendere le proprie case (ricordate Legnano o Fornovo?), trasformando gli sfiduciati reduci di Caporetto in un’armata ferocemente determinata a resistere.



Ora, i soldati non cantavano solo "Il general Cadorna…": cominciava a diffondersi un’altra canzone il cui ritornello parlava del Piave che mormorò "non passa lo straniero"; e lo straniero, stavolta, non passò.



Era finita la XII battaglia dell’Isonzo: ci era costata 10.000 morti, 30.000 feriti, 300.000 prigionieri, 350.000 sbandati e disertori, 3.152 cannoni, 1.732 bombarde, 5.000 mitragliatrici; l’esercito italiano, tra il Brenta e il mare, poteva contare su non più di 300.000 uomini!



Ma erano uomini che la tragedia di Caporetto aveva profondamente cambiato.

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Guerra sulle vette.



La guerra, in particolar modo per la 1a, la 4a armata e le truppe del settore Carnia, si combattè quasi interamente in montagna, con quote variabili tra i mille ed i quasi quattromila metri (Marmolada, Ortles, Gran Zebrù, Cevedale, Adamello) e temperature invernali intorno ai trenta gradi sottozero.



Se a questo si aggiunge che i due inverni, 1915-16 e 1916-17, furono caratterizzati da straordinarie precipitazioni nevose e da un clima più freddo della media del secolo, ci si renderà immediatamente conto delle condizioni terribili in cui si trovarono a combattere i soldati degli opposti schieramenti.



Non si può, perciò, capire fino in fondo il dramma della Grande Guerra se non si tiene conto anche delle decine di migliaia di morti per valanga, degli assiderati, dei congelati e delle inenarrabili sofferenze di uomini costretti a sopravvivere, prima ancora che a combattere, in un ambiente ancora oggi proibitivo.



I protagonisti tradizionali di questi epici scontri, che, nonostante l’utilizzo di masse umane assai inferiori a quelle delle grande battaglie isontine e carsiche, ebbero grande risonanza per l’alto valore alpinistico di alcune imprese e per la temerarietà di ogni iniziativa offensiva, furono, da una parte, gli Alpini e, dall’altra i Tiroler Kaiserjaeger (TJR), tradizionali rivali di quasi tutte le battaglie sui monti.



Questi due corpi ebbero, e mantengono ancora, un grande rispetto reciproco, memoria dei mille gesti cavallereschi intercorsi tra loro in tempo di guerra: da questa solidarietà, che accomuna i soldati della montagna, è addirittura nata un’istituzione, emanazione dell’A.N.A., che raduna tutti i soldati di montagna del mondo, l’IFMS.



Sarebbe, tuttavia, sbagliato pensare che soltanto gli Alpini ed i TJR siano stati protagonisti delle azioni di questa parte di fronte: fanti, bersaglieri, granatieri, da parte italiana, honvèd, kaiserschuetzen, fanteria, landsturm, da parte austroungarica, insanguinarono le montagne della lombardia, del trentino, del veneto e del friuli, al pari dei loro più attrezzati commilitoni delle truppe da montagna.



Indichiamo, ora, con la solita estrema sintesi cui lo spazio ci costringe, i principali settori del fronte che furono interessati dalla guerra in montagna:



Settore Valtellina: teatro di scontri assai modesti sul piano strategico e con truppe molto limitate (pattuglie, plotoni, compagnie), ma caratterizzato da imprese straordinarie per lo scenario di altissima quota in cui si combattè (zona dello Stelvio, Gran Zebrù, Ortles, Cevedale);



Settore Valcamonica: ruotava sul massiccio Adamello-Presanella (con quote superiori ai 3.000 metri), che ospitò masse di uomini anche notevoli e vide tentativi di attacchi in massa, purtroppo quasi sempre risoltisi in carneficine (Fargorida, Cavento); andava dal passo del Tonale alle valli Giudicarie;



Settore Val Lagarina: dalle valli Giudicarie a Rovereto, con quote sensibilmente più basse delle precedenti, ma pur sempre intorno ai 2.000 metri (Altissimo, Baldo, Coni Zugna), vide un notevole impiego di fanterie da parte dei due schieramenti;



Settore Altipiani: vide l’utilizzo di grandi masse di uomini, in operazioni di vasta portata (Strafexpedition, Operazione K, battaglie d’arresto dopo Caporetto); nel sottosettore di Lavarone e Folgaria (val Terragnolo, val d’Astico)vide, nella prima fase della guerra, notevoli scontri di artiglierie tra i forti delle due parti, che dominavano la parte occidentale dell’altipiano dei Sette Comuni.



Settore Cordevole: zona di montagne con quote non elevatissime, ma con scenari dolomitici molto aspri, si estendeva fra le Pale di San Martino e il Pelmo.



Settore Cadore: scenario delle più note battaglie dolomitiche, andava originariamente dalla val Boite alle sorgenti del Piave: di qui gli italiani mossero per conquistare uno sbocco verso il Tirolo austriaco e la valle della Drava. Non vi furono grandi ammassamenti di truppe, tuttavia si verificarono scontri anche di un certo rilievo



Zona Carnia: interessava la zona Comelico, Peralba, valle Uccea, con uno scenario montano aspro e carsico ed un notevole utilizzo delle fanterie;



Alpi Giulie: montagne brulle e quasi del tutto prive di acqua, con quote intorno ai 2.000 metri, ma anche superiori (Rombon, M.te Nero, Jof Fuarte, Montasio); furono interessate direttamente dalla XII battaglia dell’Isonzo, che vide spesso l’isolamento dei reparti che tenevano le posizioni più elevate.



I fatti d’arme più importanti che interessarono questa parte di fronte avvennero tutti nella zona degli altipiani (CTA), e videro gli opposti schieramenti fronteggiarsi in battaglie, ora difensive , ora offensive, che si combattevano ciclicamente sulle stesse posizioni.



Il 15 maggio del 1916, dietro le pressioni del maresciallo Conrad, due armate a.u., l’XI e la III, appoggiate da un migliaio di cannoni, scatenarono tra Adige e Brenta una poderosa offensiva, allo scopo di sfondare le difese italiane della zona altipiani e sfociare nella pianura vicentina; l’offensiva, che era nota a tutti ufficiosamente come "Strafexpedition", cioè ‘spedizione punitiva’, mirava anche a punire l’Italia per il suo tradimento della Triplice Alleanza (e bisogna ammettere che gli A.U. non avevano proprio tutti i torti ad essere infuriati con noi!),e aveva, perciò, una valenza emotiva non comune.



In un mese (15/5-16/6), le truppe a.u. occuparono praticamente tutto l’altopiano dei Sette Comuni: resisteva soltanto una sottile linea sul bordo meridionale dell’acrocoro, in corrispondenza di rilievi divenuti leggendari per la granitica resistenza italiana: il Pasubio, il Priaforà, il Cengio, il Lemerle, lo Zovetto, il Fior.



Molte di queste cime precipitavano a strapiombo sulla pianura; e molti dei loro difensori, esaurite le munizioni, precipitarono nel vuoto, avvinti ai soldati nemici, in un disperato corpo a corpo.



Questa resistenza non fu vana: la sera del 16 giugno il C.S. austriaco ordinava di passare alla difensiva; la Strafexpedition era finita.



Subito, gli Italiani contrattaccarono, approfittando dell’arretramento tattico del nemico: il 24 luglio, riconquistate Asiago ed Arsiero, la linea si stabilizzò sui caposaldi rappresentati dai monti Majo, Cimone, Zebio e da cima Caldiera.



Il 10 giugno del 1917, circa 300.000 italiani attaccarono le linee a.u. sugli altipiani, mirando all’immediata conquista dei monti Zebio ed Ortigara, allo scopo di scardinare le difese nemiche e costringere gli A.U. a calare in Val Sugana.



L’azione fu dispersa in mille rivoli e mal condotta: non si tenne conto delle avverse condizioni climatiche, né si arrestò l’attacco dopo i primi, terrificanti, massacri.



In quella che fu nota al mondo come battaglia dell’Ortigara, durata fino al 26 giugno, le perdite italiane, paragonabili a quelle di una battaglia isontina, avvennero per la maggior parte in 2 km di fronte: 28.000 uomini, tra cui 22 battaglioni alpini, pressochè distrutti.



In quell’inferno inimmaginabile, i valorosi fanti della brigata Regina urlavano: "Ridateci il Carso!"; eppure, l’Ortigara fu presa, anche se per pochi giorni e senza alcuna possibilità di avanzare sugli obiettivi strategici.



Se mai esisterà un simbolo della canaglieria e della stupidità dei generali ‘vej Piemont’, quello è la montagna maledetta, che, monumento terribile, domina il vallone dell’Agnellizza, cupa e senza un filo d’erba.



Il 27 gennaio 1918, più o meno dalla stessa linea di massima penetrazione della Strafexpedition, raggiunta dopo Caporetto dagli A.U., nel corso della battaglia delle Melette, gli Italiani scattarono per riconquistare i monti Valbella, Col del Rosso ed Echele, riuscendo nell’intento il 31/1: questa vittoria ebbe un’importanza particolare, perché fu la prima vittoria italiana dopo il grave rovescio isontino.



In seguito, i tre monti saranno persi e di nuovo ripresi, aggiungendo morti ai morti.



Per ragioni di spazio, sorvolo sul glorioso (da entrambe le parti) intermezzo del M.Grappa, perno di tutto il nostro dispositivo difensivo, che vide la resistenza italiana per tutto l’inverno e tutta la primavera successivi a Caporetto: spero mi si scuserà, e prometto che, alla prima occasione dedicherò al Grappa qualche pagina monografica.







Curiosità.



Le prime truppe alpine utilizzate a spizzichi sulle altissime quote dell’Adamello, avevano, in parte, ancora le divise della guerra di Libia, che, come facilmente si può immaginare, erano del tutto inadeguate ad una primavera a 3.500 metri.



Alcune tra le montagne che furono contese sanguinosamente per tutta la guerra, furono abbandonate agli A.U. proprio all’inizio delle ostilità, con macroscopici errori strategici, che costarono sforzi immani per la loro riconquista, che non sempre ci fu (Scorluzzo, P.sso Paradiso, Colsanto).







Dal Piave a Vittorio Veneto.



Il 15 giugno 1918, iniziava la battaglia del Solstizio, o, meglio, l’operazione Albrecht.



Gli A.U. dovevano sfondare il fronte italiano, per ottenere una pace favorevole, mentre la monarchia si stava sfaldando sotto la spinta dei nazionalismi e della crisi economica; così attaccarono al Tonale (operazione Lawine), sui soliti altipiani e sul Grappa (operazione Radetzky) e sul Piave (operazione Albrecht, appunto).



L’esercito che stava loro di fronte, però, era un esercito riarmato con mezzi più moderni, con facili vie di rifornimento e con reparti ricostituiti grazie all’afflusso delle giovani reclute della classe 1899; anche il morale era alto, e, inoltre, gli Italiani detenevano il dominio quasi incontrastato dei cieli.



Tuttavia, all’inizio, l’attacco a.u. penetrò nei territori di là dal Piave, creando una grossa testa di ponte nella zona del Montello (una specie di bassa collina sedimentaria), preoccupando gli alti comandi (nuovo CSM era Armando Diaz), fino a raggiungere, il 20/6, il punto di massima penetrazione.



Risultati anche meno rilevanti si erano ottenuti nel basso Piave.



Il 23 giugno, pressati dalle notizie da Vienna e dal contrattacco italiano, gli A.U. avevano già ripassato il Piave: l’ultimo ruggito della monarchia bicipite si era concluso con un nulla di fatto, se escludiamo la perdita di 50.000 uomini; ora era solo questione di tempo.



Per gettare le basi di un passaggio vittorioso del fiume sacro alla Patria, gli Italiani, con un’azione durata cinque giorni, tra il 2 ed il 6 di luglio del 1918, riconquistarono il delta del Piave; seguì un interludio , che durò fino ad ottobre.



Il 24 ottobre, ad un anno esatto da Caporetto, oltre 3.500 cannoni aprirono il fuoco, dal Brenta all’Adriatico: era la battaglia finale di una guerra senza esclusione di colpi.



Dopo qualche difficoltà iniziale, gli italiani riuscirono a sfondare in molti punti, mentre l’VIII armata di Caviglia e di Lord Cavan puntava su Vittorio Veneto.



Per l’A.U. era il crollo: mentre le truppe più fidate (in particolare quelle tedesche) resistevano disperatamente sul Grappa e sugli altipiani, Sloveni, Bosniaci, Croati, Cecoslovacchi e, in parte, Ungheresi, abbandonarono la lotta, iniziando un enorme esodo di ripiegamento.



Naturalmente, l’Italia voleva conquistare quanto più territorio possibile, prima del cessate il fuoco, in modo da presentare al tavolo delle trattative una conquista di fatto (cosa fatta capo ha), che difficilmente sarebbe stata messa in discussione: per questo si potè assistere al bizzarro spettacolo di truppe a.u. ancora in piena efficienza, che risalivano le valli alpine, superate dalle avanguardie italiane, che correvano verso il Brennero, senza minimamente disturbarsi a vicenda.



Sempre per questo motivo, il capitano a.u. Ruggera, che si era presentato con la proposta di resa alle linee italiane di Serravalle all’Adige già il 29 ottobre, assistette ad una incredibile sequenza di tergiversazioni diplomatiche, atte a guadagnare tempo prezioso (i soldati, nel frattempo, risalivano le valli).



Lo stesso fu per la commissione ufficiale d’armistizio, comandata dal generale Weber.



Soltanto alle 18 del 3 novembre 1918, dopo una ridda di aggiustamenti e di cambi di programma, tra Vienna, Roma e Baden, a Villa Giusti venne firmato il protocollo d’intesa dell’armistizio, che prevedeva la cessazione di ogni atto ostile da entrambe le parti entro le ore 15 del giorno successivo.



Era finita la Grande Guerra sul fronte italiano.



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