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Chi avesse letto i principali
quotidiani europei, la mattina del 12 novembre 1918, avrebbe trovato, a
titoli di scatola, la notizia che, da più di quattro anni, centinaia di
milioni di persone aspettavano: la guerra era finita, definitivamente su
tutti i fronti.
Il lettore, però, sia che fosse un festante Francese, un Inglese o un
Americano, o un esausto Italiano, sia che fosse un Tedesco o un
Austroungherese, con le lacrime agli occhi ed un futuro minaccioso
davanti, non avrebbe trovato, nel clamore delle prime pagine, urlate
agli angoli delle strade, la notizia vera, quella importante: il
necrologio dell’Europa.
Altro che secolo breve: il Novecento è stato un secolo lunghissimo,
aperto dalla veglia funebre dell’Europa dei re e degli imperatori, vive
ora sulle banconote da cento Euro, una moneta comune!
Eppure, senza il feroce tirocinio della Grande Guerra, non ci sarebbe
neppure stato il "Novecento": probabilmente, non sarebbero esistiti gli
ipernazionalismi, nati dalle insoddisfazioni di Versailles, come non ci
sarebbero state le rivoluzioni, di cui quella guerra fu la levatrice, e,
soprattutto, non ci sarebbe stato il ricatto economico statunitense, che
nacque proprio dagli enormi vantaggi americani, dovuti ai debiti di
guerra: altro che splendido isolamento!
Insomma, il Novecento non è stato un secolo di quieta transizione, con
le sue quiete guerricciole e il suo quieto malessere generale, con
alleanze traballanti ed incidenti internazionali mai abbastanza gravi da
non essere rimediati: al posto di alcuni atroci genocidi, probabilmente,
ne avremmo avuti altri; ma meno eclatanti e meno raccontati.
LA GRANDE GUERRA-la più orribile carneficina dela storia
Parte prima: da Serajevo al patto di Londra.
I primi colpi della Grande Guerra furono sparati a Serajevo, il 28
giugno del 1914.
Li sparò un giovanotto serbo, associato al gruppo nazionalista della
Narodna Odbrana: Gavrilo Princip.
Bersaglio di quei colpi di pistola furono l’erede al trono absburgico,
Francesco Ferdinando, e sua moglie, Sofia Chotek, che morirono entrambi.
I Serbi vedevano nell’arciduca l’incarnazione dell’odiata dottrina
trialista, ossia l’idea di un’autonomia croata all’interno dell’impero,
in chiave antiserba ed antislava; inoltre, Francesco Ferdinando era
legato a filo doppio con il bellicoso alto comando di Baden, dominato
dal generale Conrad von Hoetzendorf e da un’ammirazione sconfinata per
il militarismo prussiano; tanto che, si mormora che l’anziano imperatore,
Francesco Giuseppe, ostile all’idea di un conflitto, alla notizia
dell’eccidio, abbia esclamato: "Poveri ragazzi; ma, in fondo, per la
pace è meglio così!".
Tuttavia, la situazione precipitò, in un balletto di ambasciatori che si
concluse col celebre ultimatum alla Serbia, e con la dichiarazione di
guerra, un mese esatto dopo l’attentato: una versione piuttosto
accreditata dei fatti è quella che indica nell’imperatore tedesco,
Guglielmo II, il motore della crisi definitiva, culminata con la
dichiarazione dei pieni poteri in bianco, che sanciva un’alleanza
strettissima tra i due imperi centrali.
Tant’è che Guglielmo II, dopo la mobilitazione generale dell’esercito
zarista, inviò già il 31 luglio un ultimatum alla Russia e alla Francia,
cui fecero seguito, a stretto giro diplomatico, le dichiarazioni di
guerra, rispettivamente l’1 ed il 3 di agosto.
Così, scattarono i meccanismi delle alleanze: l’Italia si dichiarò
neutrale, come il Belgio (che ricevette ugualmente un ultimatum dai
tedeschi il 2 agosto e venne invaso due giorni dopo); la Turchia si
alleò segretamente con gli Imperi centrali e proclamò la Jihad contro
l’Intesa, il 31 ottobre; l’Inghilterra scese in campo contro la Germania
il 4 agosto e, dopo che l’A.U. dichiarò guerra alla Russia (6 agosto),
non esitò a dichiararle guerra, insieme alla Francia (12 agosto).
I giochi erano fatti: ora toccava alle armi e non più agli ambasciatori
far sentire la voce dei vari stati belleigeranti.
Il creatore del piano strategico germanico in chiave anti francese era
un anziano generale, che stava morendo proprio in quei giorni: Von
Schlieffen.
Questo piano prevedeva l’invasione del nord- est francese, con per
obiettivo l’isolamento di Parigi, passando attraverso il Belgio; il
piano era brillante, ma c’era bisogno di due cose perché funzionasse:
un’azione a tenaglia in cui il lato destro fosse fortissimo, per
compiere l’aggiramento e tagliare in due lo schieramento anglo-francese,
ed una grande velocità di esecuzione.
Solo che, nel 1914, pur spostando velocemente le truppe alle frontiere,
grazie alla loro eccellente rete ferroviaria, i tedeschi non disponevano
di mezzi di trasporto celeri durante l’attacco; le truppe ed i pesanti
carriaggi d’artiglieria procedevano molto lentamente, una volta
effettuato lo sfondamento: furono i carri armati che permisero ad Hitler
di perfezionare quello che Schlieffen aveva progettato, cioè la
Blitzkrieg!
Per questo, i franco-britannici ebbero il tempo di riorganizzarsi, dopo
il primo shock, e di arrestare le armate tedesche , contrattaccandole,
fino a giungere su quelle posizioni che resteranno in gran parte
invariate per tutto il conflitto.
In effetti, nella prima decade di settembre 1914, avvenne quello che fu,
poi, definito da molti "il miracolo della Marna", quando le,
apparentemente inarrestabili truppe germaniche, furono fermate sulla via
di Parigi da una robusta battaglia d’arresto sul fiume sacro ai Francesi;
il miracolo, però, è spiegabilissimo in termini militari: oltre a quanto
già scritto, è certo che i Tedeschi, ad un certo punto, temettero di
indebolire troppo il fianco sinistro a favore del destro, e non diedero
quella spinta vigorosa da nord che Schlieffen aveva raccomandato per il
buon esito del suo piano.
La volontà granitica di resistere e di non ripetere un’altra Sedan da
parte dei Francesi e il sacrificio terribile del vecchio esercito
professionale inglese (che ne uscì distrutto, tanto che anche
l’Inghilterra, in seguito a ciò, adottò la leva di massa), che si
dissanguò per un mese nelle Fiandre, allo scopo di contendere ai
germanici lo sbocco al Pas de Calais, che avrebbe segnato il culmine
dell’aggiramento (18 ottobre-15 novembre) , fecero il resto.
Nasceva un nuovo tipo di guerra, la guerra di posizione, basata su
difese campali articolate e profonde, con fasce di filo spinato larghe
centinaia di metri, un’enorme quantità di pezzi d’artiglieria, e un
sostanziale prevalere della difesa sull’attacco, grazie alle nuove armi
a tiro rapido, le mitragliatrici, che, con l’artiglieria pesante,
saranno l’arma simbolo della Grande Guerra.
Il passo successivo sarà, come vedremo, la guerra d’attrito, in cui le
battaglie serviranno, non a conquistare un successo definitivo, ma a
consumare ferocemente le risorse materiali ed umane dei contendenti, per
ottenere il dissanguamento dell’avversario.
Sul fronte orientale, invece, i grandi spazi e le caratteristiche degli
eserciti contrapposti permisero vasti movimenti di truppe.
Inaspettatamente, i russi, comandati da Samsonov e Rennenkamp,
attaccarono con successo la Prussia orientale, costringendo al
ripiegamento i tedeschi e creando sconcerto, se non panico, a Berlino;
poi, il provvidenziale intervento di Ludendorff, del suo vice Von
Hindenburg, e, soprattutto, di un valente generale che avrebbe fatto
carriera, Von Below, che inconteremo di nuovo come comandante generale a
Caporetto, permisero di capovolgere la situazione, passando l’iniziativa
ai tedeschi, che l’avrebbero poi sempre mantenuta.
Le armate germaniche inflissero una sconfitta spaventosa alle truppe
zariste, in quella battaglia dei laghi Masuri, che i tedeschi ricordano
come battaglia di Tannenberg, per associarla alla battaglia combattuta
in quei luoghi nel XV secolo dai cavalieri teutonici: ad un certo punto,
era tale la mattanza delle truppe russe, in fuga lungo le sottili lingue
di terra tra una palude e l’altra, che molti artiglieri tedeschi
sospesero il fuoco.
Intanto, gli Austriaci faticavano, alle prese con il combattivo esercito
serbo e con la minaccia russa in Galizia, tanto che, ad un certo punto,
i tedeschi dovettero distogliere truppe dal settore settentrionale del
fronte per appoggiare l’alleato in difficoltà, intorno alla fortezza,
persa e poi ripresa, di Premzyl.
Alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, nulla si era deciso, ad
Ovest come ad Est, ma erano ugualmente già cadute centinaia di migliaia
di uomini: gli italiani mostrarono di non saper fare tesoro
dell’esperienza già maturata nel primo anno di guerra, e questo come
vedremo, avrebbe causato loro problemi a non finire.
I Fronti.
Per comprendere il meccanismo dei vari fronti, è utile immaginarli come
delle porte girevoli, nelle quali, data l’estensione dei territori, alla
spinta in un settore corrispondeva, quasi sempre, un atteggiamento
difensivo nell’altro: fu così sul fronte occidentale, dove a nord era
maggiore la pressione tedesca, mentre, verso sud, in Alsazia, i Francesi
avevano un’impostazione decisamente offensivista; lo stesso dicasi per
il fronte orientale, coi Russi aggressivi in Galizia e pesantemente
sconfitti in Masuria e sul Baltico; non si sottrasse alla regola neppure
il fronte meridionale, cioè quello italiano, con una forte spinta
offensiva austroungarica nel settore trentino, cui corrisposero le
undici battaglie dell’Isonzo, intorno a Gorizia e a Trieste, in cui gli
Italiani furono perennemente all’attacco.
Naturalmente, stiamo parlando di grandi tendenze: è chiaro che,
all’interno del sistema difesa-attacco, sussistevano operazioni di
carattere tattico, e anche di notevole importanza, che smentivano la
tendenza strategica generale; tuttavia, è opportuno tenere presente
questo schema, se si vuole avere un’idea abbastanza attendibile dei
meccanismi che sovrintendevano all’attegiamento dei vari eserciti.
A questo si aggiunga che, da un certo momento in poi, le offensive
dell’Intesa vennero pianificate da un’apposita conferenza interalleata,
anche in funzione dell’alleggerimento di settori posti sotto pressione:
così, ad esempio, se gli Italiani erano alle strette in Trentino, i
Russi scatenavano un’offensiva in Galizia che distogliesse truppe
austriache dal fronte meridionale, permettendo agli alleati di
riorganizzarsi.
Il fronte italiano, di cui ci occuperemo nel dettaglio nel secondo
inserto dedicato alla Grande Guerra, aveva caratteristiche del tutto
particolari; esso si trovava, per buona parte, in territori impervi, con
quote spessissimo superiori ai duemila metri, e con linee di
rifornimento problematiche.
L’unico settore paragonabile a quello italiano, fu quello dei Carpazi,
in cui le truppe austroungariche pagarono un pesante tributo di sangue,
del quale resta memoria, per esempio, nella celebre canzone composta dai
trentini che combattevano nell’esercito imperialregio e intitolata "I
monti Scarpazi"; per il resto, i fronti correvano in pianura o, tutt’al
più, su piccoli rilievi, onorati dell’appellativo di Quote dalla
toponomastica militare, come nel caso di Quota 304, a Verdun.
L’Italia.
Dallo scoppio delle ostilità all’entrata in guerra dell’Italia, come è
noto, trascorsero dieci mesi, che furono piuttosto turbolenti: erano
appena finiti gli scioperi della Settimana Rossa (giugno 1914) e
l’Italia si era dichiarata neutrale, a differenza di Mussolini, che, per
questo, era stato espulso dal Psi ed aveva fondato "Il popolo d’Italia".
I diplomatici italiani, da subito, si erano messi alla finestra, per
cercare sul mercato del "do ut des" il miglior offerente: dapprima,
pareva che si dovesse trattare dell’Austria, in base a quell’articolo
della Triplice Alleanza che prevedeva compensi territoriali per l’Italia
in caso di un’espansione asburgica, non concordata, nei Balcani.
In seguito, si fece sempre più consistente, nonostante le indefesse
manovre dell’ambasciatore tedesco Von Bulow presso il ministro di San
Giuliano, l’ipotesi di un intervento a favore dell’Intesa, dietro
precise concessioni territoriali, che l’Italia specificò in un
memorandum consegnato al Foreign Office, nel marzo del ’15.
Si giunse, infine, alla firma del patto segreto di Londra (26 aprile),
in cui l’Italia si impegnava ad entrare in guerra entro un mese a fianco
dell’Intesa, in cambio dell’annessione di Trentino-Alto Adige, Trieste,
Istria, Isole Dalmate, Valona e Dodecaneso, in caso di conclusione
vittoriosa del conflitto: le manifestazioni neutraliste ed interventiste
contarono certamente meno di questa allettante prospettiva; una volta di
più, la real politik aveva il sopravvento su qualsivoglia utopia!
Prova ne sia il fatto che il blocco neutralista era di gran lunga il più
numeroso, anche se, forse, non il più rumoroso, nello scenario politico
del 1915; e, nonostante ciò, si entrò in guerra.
Contò, senz’altro, di più l’asta dei territori, che vide prevalere
l’Intesa, dei discorsi (peraltro tardivi) di D’Annunzio; quelli, semmai,
servirono a circondare di un alone risorgimentale le manovre di bottega
dei nostri politici.
Probabilmente, il primo colpo di cannone fu sparato dai forti italiani
degli altopiani di Lavarone e Folgaria: da allora, le armi non tacquero
un solo giorno, per più di quaranta mesi, fino al silenzio incredulo di
quel pomeriggio del 4 novembre 1918.
In questo primo inserto, eviteremo di occuparci nello specifico, se non
per le sue relazioni con gli altri fronti, della guerra sul fronte
italiano, cui è dedicato, come abbiamo detto, il secondo inserto; non ci
si stupisca, pertanto, di non trovare menzione degli avvenimenti che
riguardino il nostro Paese in guerra nelle prossime pagine: se ne
parlerà diffusamente a suo tempo.
Da Ypres all’entrata in guerra degli Usa.
Nell’andamento, tutto sommato, monotono del massacro quotidiano sul
fronte occidentale, si devono registrare dei picchi, in corrispondenza
con i vari reciproci tentativi di scardinare il dispositivo delle difese
avversarie; questi picchi rappresentano, oggi, delle cifre
impressionanti nel conteggio delle perdite, ma, molto di più,
significano, nei ricordi dei sopravvissuti, un orrore inimmaginabile.
Una storiografia basata sul calcolo statistico, non potrà mai descrivere
la tragedia infinita di Verdun o della Somme: si potà dire dei milioni
di proiettili d’artiglieria tuttora non recuperati (e onorare gli eroici
démineurs francesi, che ancora oggi pagano un pesante prezzo alla
bonifica dei campi di battaglia), delle centinaia di migliaia di
cadaveri mai trovati, dei colpi sparati, dei feriti e dei mutilati; ma
questo non servirà a comprendere l’incubo che avevano negli occhi i
reduci di queste battaglie terrificanti.
Nel 1915, l’orrore della guerra comincia ad assumere caratteri nuovi e
peculiari: inizia l’attacco sottomarino tedesco ai trasporti nemici, nel
tentativo di fiaccare la resistenza dell’avversario e di
controbilanciare la potenza britannica in termini di marina di
superficie; proprio in questo contesto avverrà, il 7 maggio,
l’affondamento, al largo dell’Irlanda, del transatlantico inglese
"Lusitania", con 124 americani tra le vittime: questo, negli Stati
Uniti, sarà uno degli argomenti principali dei sostenitori dell’ingresso
degli Usa in guerra al fianco dell’Intesa.
A Ypres, in aprile, vi sarà il primo massiccio attacco con i gas da
parte dei tedeschi, sia sulle linee inglesi che su quelle francesi, a
distanza di pochi giorni: di qui proviene il nome dato a quel gas, la
cosiddetta Iprite, che inaugurò la stagione dei grandi attacchi con gas
asfissianti e vescicanti, come il fosgene o il gas mostarda, che anche
sugli altri fronti semineranno morte e panico.
Più o meno nello stesso periodo, gli inglesi sperimenteranno la prima
operazione di sbarco militare, mandando i soldati dell’Anzac (Australian
and New Zealand Army Corps) a farsi macellare sulla penisoletta di
Gallipoli, in Turchia.
Archiviata come uno dei più scalcinati attacchi di tutta la guerra,
l’impresa di Gallipoli aveva l’obiettivo di eliminare il sistema di
forti che impedivano l’accesso ai Dardanelli, in modo da ottenere quel
passaggio che le navi da guerra inglesi non erano riuscite ad aprirsi
coi loro cannoni, riportando, invece, seri danni.
Mal concepita e peggio condotta, la campagna che si protrasse per ben
otto mesi, dall’aprile del ’15 al gennaio del ’16, vide tutta una serie
di assalti sanguinosi ed improvvisati alla linea trincerata turca, che
portarono solo ad uno stallo, la cui unica soluzione fu, alla fine,
evacuare la penisola; se vi fosse stato, viceversa, un deciso attacco di
sorpresa, mentre le difese turche non si erano ancora potute
organizzare, probabilmente l’operazione sarebbe riuscita, senza le
enormi perdite subite dai valorosi Anzacs.
Questo, tuttavia, era solo l’inizio: il 1916 assistette agli scontri,
forse, più spaventosi dell’intero conflitto.
Tra il febbraio ed il dicembre del’16, a Verdun, nella Woevre, francesi
e tedeschi si contesero pochi chilometri quadrati, al prezzo mostruoso
di 700.000 morti.
Il generale Von Falkenhain, aveva concepito un piano feroce: si trattava
di creare un saliente nel punto focale delle difese nemiche, il vasto
sistema di forti intorno a Verdun, sulle rive della Mosa, in modo che i
Francesi, non potendo ritirarsi, poiché questo avrebbe messo in crisi
l’intero fronte, dovessero gettare nella battaglia risorse sempre
maggiori, fino al dissanguamento del loro esercito; questa fu la guerra
d’attrito.
In effetti, l’esercito francese non si sarebbe mai più ripreso dal
tremendo salasso: i suoi effettivi non sarebbero più tornati al numero
di prima del febbraio del ’16.
Nel pieno della battaglia, lungo la strada di rifornimento tra Verdun e
Bar le Duc (la Voie Sacrée), ogni giorno passava un’intera divisione
francese, che, il giorno dopo veniva sostituita, poiché aveva cessato di
esistere.
Il cimitero di Douaumont, con la sua tetra torre, resta a testimonianza
e monito di quel dramma gigantesco.
Alla fine, grazie soprattutto al valoroso comando e alla volontà di
resistere del generale Pétain (fu lui a scrivere il celebre ordine del
giorno "On les aura"), i Francesi conservarono il possesso della
cittadina; il prezzo pagato dai contendenti fu, tuttavia, esorbitante.
Dopo la battaglia navale dello Jutland (31 maggio), la situazione nel
Mare del Nord e nel Baltico rimase sostanzialmente stazionaria: le
corazzate di Von Tirpitz non erano riuscite a sconfiggere la Home Fleet
inglese ed erano tornate nei loro porti per non uscirne, praticamente,
più; l’Inghilterra vinse la guerra dei blocchi e la Germania cominciò a
boccheggiare per la mancanza di rifornimenti via mare.
Tra il giugno ed il novembre del 1916, sul fiume Somme, i tedeschi
attaccarono e furono, poi, contrattaccati da inglesi e francesi; il
risultato fu insignificante in termini territoriali, mentre i morti
furono circa un milione, tra cui più di 400.000 britannici: ormai la
guerra aveva raggiunto tali livelli nelle perdite, che le nazioni
belligeranti non avrebbero potuto reggere a lungo a questi ritmi.
Intanto, alla fine dell’anno, fecero la loro comparsa nelle Fiandre i
Mk1, i primi carri armati inglesi , che, però, furono usati a spizzichi,
e sempre a ruota delle fanterie: pochi ne intravvedevano le immense
potenzialità.
In realtà, quello era il mezzo per uscire dallo stallo della guerra di
trincea, a patto di gettarne nella mischia masse numerose in un solo
attacco, come avvenne ad Arras, su piccolissima scala; solo che nessuno
se n’era ancora accorto.
Mentre gli austriaci avanzavano in Trentino, in seguito alla
Strafexpedition (maggio 1916), il generale russo Brussilov sfondava le
linee austriache ad est e procedeva per centinaia di chilometri, facendo
prigionieri interi corpi d’armata.
Questa, che diede una mano ai nostri soldati che difendevano la linea di
massima resistenza, sull’Altopiano dei Sette Comuni, fu l’ultima
iniziativa vittoriosa dell’esercito zarista, che, di lì a poco, sarebbe
scomparso nel vortice della rivoluzione.
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IL FRONTE ITALIANO
Lo scoppio della guerra
Abbiamo già detto delle ragioni che portarono l’Italia ad aderire
all’Intesa, e che, in sostanza, fanno riferimento alle appetitose
offerte territoriali messe sul piatto dalla diplomazia inglese e
francese, che portarono alla firma del patto segreto di Londra, del 26
aprile 1915, perciò non torneremo sull’argomento.
Questa nostra disamina, forzatamente molto succinta, prenderà perciò le
mosse dallo scoppio della guerra sul fronte italiano, partendo,
necessariamente, dalle condizioni in cui il nostro Paese entrò in
guerra.
Giova premettere che l’Italia, alla vigilia della Grande Guerra, era
ancora un paese diviso etnicamente e geograficamente, le cui componenti
si sarebbero conosciute e, forzatamente, frequentate da vicino, proprio
nelle trincee; a questo si aggiunga che l’idea di intervento, di santità
della guerra e di redenzione di Trento e Trieste era sviluppata
soprattutto nelle classi borghesi, mentre trovava piuttosto indifferenti
le vaste plebi contadine della Penisola.
Di fatto, perciò, fu la gioventù colta e benestante che diede il maggior
impulso alle manifestazioni antigiolittiane della vigilia; e, per amor
di verità, bisogna dire che fu anche la classe sociale che pagò, in
proporzione, il prezzo più alto della guerra: i giovani ufficiali di
complemento, nutriti di garibaldinismo e di retorica patriottica, si
fecero massacrare alla testa delle proprie truppe nelle prime,
sconsiderate, offensive di Cadorna, privando, in breve, l’esercito di
validi ufficiali subalterni.
Quando l’Italia entrò in guerra, il 24 maggio del ’15, il conflitto sui
fronti occidentale ed orientale durava ormai da quasi un anno; ciò
nonostante, gli alti comandi italiani non fecero affatto tesoro di
quello che i tremendi massacri dei primi mesi di guerra avevano
insegnato sulla pericolosità delle armi automatiche, sull’inutilità
degli attacchi a ranghi serrati contro le trincee ed i reticolati, sulla
preparazione d’artiglieria: la regola unica del nostro esercito pareva
quella di attaccare, di "sfondare coi petti i reticolati".
Certamente, l’assetto delle truppe italiane, almeno fino alla fine del
’17, non poteva che essere offensivo; tuttavia, i concetti ispiratori di
questo offensivismo, provenivano da un libretto edito dal Cadorna dieci
anni prima della guerra, che indicava le "direttive per l’attacco
frontale", e che, per ragioni, diciamo così, anagrafiche, non teneva
punto conto di quanto successo negli ultimi dieci anni.
Lo stesso Cadorna, d’altra parte, si accingeva ad andare in pensione,
quando l’improvvisa morte del generale Pollio, Capo di Stato Maggiore
dell’Esercito (d’ora in poi, CSM), lo vide proiettato al comando
supremo, il 27 luglio del 1914; Pollio, per inciso, era stato un
obiettivo giudice delle nostre capacità militari, definendo più volte
"grandioso"lo sforzo che sarebbe stato necessario all'Italia per
mettersi alla pari delle altre potenze europee: questo sforzo sarebbe
durato quattro anni e sarebbe costato 650.000 morti.
Di fatto, all’Italia mancavano armi moderne: le mitragliatrici inglesi
Maxim arrivavano col contagocce, mentre le Fiat uscirono di fabbrica dal
maggio del’15 al ritmo di 50 al mese!
L’esercito italiano mancava dunque di quelle armi automatiche che
avevano fatto la differenza sul fronte francese: il 24 maggio del 1915
ne possedeva soltanto 618 per dieci corpi d’armata.
I grossi calibri d’assedio, se escludiamo le vecchie ed usurate batterie
da costa riattate, erano praticamente assenti, mentre i calibri da
campagna, piccoli e medi, erano spesso obsoleti pezzi ad affusto rigido,
di ghisa o, qualche volta, addirittura di bronzo, che dovevano essere
ripuntati dopo ogni colpo, e con cadenze di tiro da guerra napoleonica.
Le bombarde, tanto utili per spianare i reticolati, entreranno in
funzione dal 1916, così come gli elmetti in acciaio di tipo ‘Adrian’,
originariamente acquistati dalla Francia.
Insomma, il nostro Paese entrava in guerra con un esercito disomogeneo,
male armato e peggio comandato: c’erano tutte le premesse per un
disastro.
Se non che l’Austria –Ungheria (d’ora in poi, A.U.), impegnata duramente
dai Serbi e dai Russi, stava peggio di noi, almeno per quel che riguarda
le risorse umane, visto che alcune zone del fronte, nel maggio del ’15,
erano del tutto sguarnite, o difese da reparti di anziani territoriali
della Landsturm; bisogna però dire che gli A.U. potevano contare su di
una linea difensiva vantaggiosissima, su di un buon numero di ottime
mitragliatrici Schwarzlose e su di un’artiglieria efficiente; oltre che
sul loro innato spirito bellicoso.
Tuttavia, se le nostre truppe avessero attaccato vigorosamente durante
la prima settimana di guerra, avrebbero trovato ben poca resistenza tra
loro e il cuore della monarchia danubiana; solo che non attaccarono, e
questo diede agli A.U. il tempo di fare affluire truppe, di organizzare
le difese, e di ottenere un consistente aiuto dall’alleato germanico,
che inviò il poderoso Alpenkorps del generale Krafft von Dellmensingen
nel Tirolo.
curiosità .
In un libello del 1914, un capitano di vascello italiano, esperto
d’artiglieria, ironizzò sulla notizia del possesso di obici e mortai di
calibro pesantissimo (42 cm.) da parte degli Imperi Centrali, che definì
"fantastica"; si dovette ricredere quando anche sul fronte italiano
cominciarono a piovere 420 da una tonnellata e mezzo: questo la dice
lunga sugli esperti del nostro Paese, di ieri e di oggi.
L’Italia non era ufficialmente in guerra con la Germania nel 1915 (la
dichiarerà il 9 agosto 1916), perciò i soldati tedeschi, ufficialmente,
non esistevano e si faceva finta di non accorgersi dei loro morti e dei
loro prigionieri; la prima prova della presenza dell’Alpenkorps sul
nostro fronte fu il ritrovamento da parte di una pattuglia italiana di
una cartolina in franchigia di un fante bavarese, che il proprietario
aveva usato per pulirsi dopo aver fatto i suoi bisogni e poi aveva
gettato: debitamente conservata, essa giunse al Q.G. italiano in una
busta.
Le spallate di Cadorna.
Dopo Caporetto, i nostri soldati cantavano: "Il general Cadorna è
proprio un gran portento, con undici spallate ha preso il Tagliamento!".
L’amara ironia dei nostri fanti sintetizza perfettamente il senso della
gestione, a dir poco antieconomica in termini di vite umane, della
guerra da parte del generalissimo.
Immaginandoci che il fronte italiano sia stato come una grande S
rovesciata su di un fianco, appare chiaro che là dove l’ansa affonda in
territorio italiano (saliente trentino), le nostre truppe dovettero
assumere ben presto atteggiamento difensivo; e che, viceversa, dove
l’ansa si protende verso nord (saliente isontino) fu gettato il maggior
peso offensivo della guerra.
Da questa semplice considerazione di carattere geografico nasce la
teoria cadorniana delle "spallate", ossia di una serie di offensive che
portassero gli A.U. a combattere con le spalle al muro: per capirne
appieno il senso, vi rinviamo a quanto scritto nel numero scorso sulla
guerra d’attrito.
Obiettivi di queste offensive erano, dapprima, la valle della Drava, il
campo trincerato di Gorizia e la destra Isonzo, e, in proiezione,
Villach, Lubiana e Trieste.
In pratica, però, gli attaccanti si trovavano di fronte montagne
altissime, su cui gli A.U. si erano trincerati abilmente, oppure il
terribile bastione rappresentato dal Carso.
Fin dalle prime scaramucce, si comprese che la tanto vagheggiata guerra
di posizione doveva lasciare il posto alle terrificanti carneficine
della guerra di trincea; e contro le trincee si lanciarono per undici
volte, dal giugno del’15 al settembre del ’17, i disperati tentativi
della nostra fanteria, che, il più delle volte, si arenarono contro
reticolati intatti o contro lo sbarramento delle mitragliatrici.
Riassumendo, in estrema sintesi, le undici battaglie dell’Isonzo furono:
23giugno-7 luglio 1915 con obiettivo il M. Kuk e la zona Oslavia-Podgora
: progressi minimi con 15.000 perdite per gli Italiani e 10.000 per gli
A.U.
20 luglio-3 agosto 1915, stessi obiettivi, cioè la testa di ponte di
Gorizia, progressi minimi, con 42.000 perdite per gli Italiani e 50.000
per gli A.U.
21 ottobre-4 novembre 1915, stessi obiettivi da Plava al mare, in
particolare Oslavia e il M. San Michele, con risultati scarsi; perdite
italiane 67.000, A.U. 42.000.
10 novembre-28 novembre 1915, stessi obiettivi, dal Sabotino al mare,
risultati insignificanti, con 49.000 perdite italiane e 25.000 A.U.
11 marzo-15 marzo 1916, stessi obiettivi (ma in realtà sotto la spinta
del II convegno interalleato, dopo Verdun), nessun progresso; 2.000
perdite per parte.
4 agosto-16 agosto 1916, stessi obiettivi, conquista della testa di
ponte di Gorizia, notevole avanzata oltre Isonzo; perdite italiane
51.000, A.U. 37.500.
14 settembre-17 settembre 1916 obiettivo il carso yugoslavo verso
Castagnevizza, progressi minimi, 21.000 perdite italiane e circa 20.000
A.U.
10 ottobre- 11 ottobre 1916, prosecuzione della VII battaglia, 24.000
perdite per gli Italiani e 25.000 per gli A.U.
1 novembre-3 novembre 1916, di nuovo l’asse Oppachiasella-Castagnevizza,
con progressi interessanti in proiezione, perdite italiane 34.000, A.U.
22.500
12 maggio-26 maggio 1917, obiettivi i monti Kuk, Santo, San Gabriele,
San Marco e, verso Trieste, l’Hermada; creazione dei presupposti per
investire la Bainsizza e il Vallone di Chiapovano, perdite italiane
112.000, A.U. 76.000.
17 agosto- 29 agosto 1917, obiettivi: la testa di ponte di Tolmino, il
Vallone, Bainsizza, San Gabriele, Ternova e valle del Vipacco, conquista
di una parte della Bainsizza, ma non del San Gabriele e dei Lom di
Tolmino, perdite italiane 143.500, A.U. 85.000
Apparentemente, come controparte di queste terribili carneficine, non vi
fu che la conquista di pochi chilometri quadrati di territorio brullo,
di cui l’Italia poteva largamente fare a meno; in realtà, però, questa
strategia aveva un suo senso.
Scrive, per esempio, Fritz Weber, artigliere nella Grande Guerra e
grande storico austriaco, che, alla vigilia di Caporetto, le truppe
imperiali erano talmente esauste e costrette a combattere col vuoto alle
spalle, da renderlo certo che un ulteriore attacco italiano avrebbe,
finalmente scardinato l’impianto difensivo della Isonzoarmee: proprio
per questo, come vedremo, si decise la XII battaglia dell’Isonzo, quella
che noi conosciamo col nome di Caporetto.
Quel che si contesta al Cadorna è, piuttosto, l’ottusità con cui questo
piano strategico venne perseguito: se la guerra su tutti i fronti aveva
dimostrato che gli attacchi avevano qualche possibilità di successo solo
se effettuati in una parte ristretta di fronte, con un’unica breve e
violentissima preparazione d’artiglieria, e con uno scatto di piccoli
gruppi di fanteria d’assalto (come avvenne con successo nel caso del
Sabotino, durante la VI battaglia, peraltro) che aprissero la via ad una
penetrazione massiccia, il CSM si ostinava, invece, a fare eseguire
attacchi su tutto il fronte, disperdendo le forze, le artiglierie e
perdendo l’effetto sorpresa.
Un esempio macroscopico di quanto scrivo fu rappresentato dagli Arditi,
specialità d’assalto, creata dal maggiore Messe e che operò dal ’17 in
poi: questi combattenti, motivatissimi e superaddestrati, venivano
trasportati coi camion nei punti più caldi del fronte, dove
intervenivano di concerto con le artiglierie, avanzando durante
l’allungamento dei tiri di distruzione, fino a conquistare le trincee ed
i capisaldi, in cui sorprendevano i nemici, che non avevano ancora
lasciato i ricoveri; di solito essi venivano utilizzati a compagnie o,
al massimo, a Reparti (circa l’equivalente di un battaglione), ma
ottenevano risultati che non si erano ottenuti precedentemente con un
enorme dispendio di vite (S.Gabriele, Col Moschin).
Nonostante tali e tante ragioni che avrebbero dovuto convincerlo della
assurdità delle sue convinzioni, Cadorna continuò, fino a quando non
venne sostituito al comando, il 9 novembre del ’17, a lanciare divisioni
su divisioni contro ostacoli insormontabili, gettando le premesse della
grande crisi che l’esercito attraversò quando più avrebbe dovuto essere
saldo.
Di più: Cadorna, a disastro avvenuto, non trovò di meglio che accusare
di tradimento truppe del tutto incolpevoli (anche se, dopo il primo
comunicato dell’agenzia Stefani, corresse il tiro), minimizzare per
quanto possibile l’accaduto, e continuare a sostenere la bontà del suo
operato nei numerosi memoriali che produsse e pubblicò.
Quanto costarono alle generazioni nate tra il 1880 ed il 1898 le teorie
di Cadorna è testimoniato dai terribili monumenti dedicati a quel
sacrificio: Oslavia, Redipuglia, Castel Dante, Asiago, Monte Grappa,
Pian delle Fugazze, Pocol, Salesei, Caporetto…
curiosità.
Enrico Toti, medaglia d’oro al valor militare, immortalato in divisa da
bersagliere da una tavola celeberrima di Beltrame mentre, privo di una
gamba, lancia la stampella contro il nemico, non era affatto un
bersagliere, e nemmeno un soldato.
Egli aveva perso la gamba anni prima in un incidente sul lavoro, e da
allora campava girando il mondo con una bicicletta senza un pedale,
esibendosi come fenomeno da baraccone.
Essendo un originale, si fissò nella volontà di partecipare alla guerra,
e divenne una specie di mascotte delle truppe, tanto che gli fu data
anche una divisa, ma senza mostrine, e con la raccomandazione di non
stare in prima linea durante le azioni.
Nel 1916, ormai popolare tra i combattenti del Carso, pare si fosse
sporto ad insultare il nemico, alcuni dicono ubriaco, e un cecchino lo
centrò.
Il resto è pura invenzione pubblicitaria.
Caporetto.
Ancora oggi, a 83 anni di distanza, ci si interroga sulle ragioni che
portarono al disastro di Caporetto: come fu possibile che un esercito
temprato ormai da due anni e mezzo di guerra spaventosa, con una massa
d’artiglieria possente e per la maggior parte incavernata, con in prima
linea sulle direttrici dell'attacco sei robusti corpi d’armata (II,
VIII, XXVII, IV, VII e XXIV) e, soprattutto, con in mano i piani
dettagliati dell’offensiva avversaria, forniti da ufficiali disertori
romeni, nei quali cui si indicava perfino l’ora dell’inizio del fuoco di
distruzione, abbia ceduto di schianto in modo così impressionante?
Le ragioni, come vedremo, sono diverse; ma, prima, è necessario chiarire
che Caporetto non fu l’unico o il più terribile disastro patito da un
esercito durante la Grande Guerra (si pensi all’Aisne, alla Somme, a
Tannenberg, a Gallipoli ): un gusto tutto italiano di esaltare le
proprie magagne, da un lato, e l’enfasi che fu data all’estero alla
sconfitta (e all’importanza, enormemente sopravvalutata, degli aiuti
anglo-francesi all’Italia), che gettò le basi per la cosiddetta
"vittoria mutilata", dall’altro, crearono l’iperbole di Caporetto.
Già nella conferenza interalleata di peschiera, l’8 novembre del ’17, si
diceva che l’esercito avrebbe potuto resistere: esiste perfino un
appunto del maresciallo francese Foch in cui si sottolinea che la sola
2a armata dovesse considerarsi perduta.
Peccato che, in quella stessa conferenza, i nostri alleati ribadirono la
loro intenzione di "preservare" le proprie truppe sul fronte italiano:
un gran bel sistema di fare la guerra; soprattutto se pensiamo ai
garibaldini delle Argonne , o alle migliaia di morti italiani, caduti a
Bligny per difendere la Francia!
Ma veniamo ai fatti, che, per ragioni di spazio, dovremo sintetizzare al
massimo.
Nella seconda metà del 1917, l’esercito russo non aveva praticamente più
capacità bellica: questo permise ai germanici di sottrarre al fronte
orientale un cospicuo numero di divisioni.
Date le pressanti richieste del nuovo imperatore d’Austria, Carlo, che
continuava a domandare aiuti al Kaiser, fu creata un’armata, agli ordini
del valentissimo generale Von Below, allo scopo di ricacciare gli
Italiani sulle posizioni del 1915.
L’impresa di giungere al Tagliamento, pareva impossibile, tant’è che lo
stesso generale Boroevic commentò l’intenzione espressa dai comandi
tedeschi con un eloquente: "Non ci riuscirete mai!"; tuttavia,
l’operazione fu preparata con grande cura e dispiego di mezzi, portati
in linea lungo le strette e tortuose rotabili di Vrsic e Most na Soci, o
per mezzo della ferrovia che collega Jesenice a Tolmino.
Per aprire la strada agli attaccanti nella conca di Plezzo, fu fatto
arrivare al fronte anche uno speciale battaglione lanciagas, che piazzò
centinaia di tubi lanciagranate sulle pendici del Ravelnik, di fronte
alle linee italiane: i reparti che Cadorna additò al pubblico disprezzo,
accusandoli di resa al nemico, erano, in realtà stati sterminati dal gas
mostarda; i "traditori" di Plezzo erano caduti al loro posto, dal primo
all’ultimo!
La mattina del 24 ottobre 1917, l’alta valle dell’Isonzo era piena di
nebbia, ed il tempo era freddo e piovoso.
Nonostante che conoscessero l’ora dell’inizio dei tiri nemici, gli
artiglieri italiani restarono silenziosi, quando una valanga di fuoco si
abbattè sulle prime linee e poi avanzò a sconvolgere le retrovie: il CSM
era stato chiarissimo, quando aveva intimato di non sparare fino a che
ciò non venisse esplicitamente ordinato.
Solo che, sotto un simile uragano di ferro, le linee telefoniche
saltarono subito; i segnali ottici non servirono a nulla nella nebbia e
nel fumo, e i portaordini non portarono nessun ordine, per la semplice
ragione che morirono quando cercarono di attraversare la cortina di
sbarramento.
In realtà, il tiro di contropreparazione sarebbe dovuto iniziare prima e
non dopo quello austrotedesco (il che, quando accadde, come nella
battaglia del Solstizio, azzerò le possibilità di successo
dell’attacco), dato che tutte le informazioni indicavano un ammassamento
di truppe d’assalto assai a ridosso della prima linea e, quindi, poco
protette da un efficace sbarramento d’artiglieria: prevalse la paura del
siluramento, più forte di qualunque altra considerazione logica o
strategica.
Badoglio, sempre lui, dopo che fu il principale esecutore dell’ordine di
Cadorna che imbavagliò le artiglierie, fu per buona pezza irreperibile;
Capello, dopo giorni di farneticazione su controffensive strategiche, si
diede malato, e gli austrotedeschi passarono.
A Caporetto c’era (sembra incredibile) un solo ponte sull’isonzo; e fu
fatto brillare anzitempo, condannando intere divisioni alla cattura.
I cannonieri del Kolovrat e del Matajur videro truppe incolonnate che
percorrevano a ritroso la valle, in direzione Caporetto; l’eventualità
che si trattasse di nemici apparve loro tanto inverosimile che li
lasciarono passare: da tanto lontano era facile confondere il
grigioverde col feldgrau!
Nel frattempo, il comandante di quel corpo d’armata, generale
Bongiovanni, nemmeno sapeva che le sue truppe erano impegnate in
combattimento!
Per farla breve, gli austrotedeschi dilagarono per la val Natisone e la
valle dell’Isonzo, in mezzo a resistenze eroiche e a grottesche
inadempienze dei comandi: Cadorna scriveva alla Stefani il comunicato
infame di cui ho già detto, e il Colonnello Gatti, suo biografo,
scriveva nel suo diario: "E’ un sogno!".
Si retrocedette la linea al Tagliamento, che, per fortuna, era in piena
e ritardò l’avanzata delle divisioni Edelweiss e Jaeger tedesche, poi,
al Piave, in una ritirata a tratti ordinata ed a tratti apocalittica; il
generale Di Giorgio, quello dell’Ortigara, comandò un gruppo speciale,
che coprì la ritirata e ci salvò dal disastro totale.
Sul Piave e sul Grappa (dove le truppe del neodecorato ‘Pour le mérite’
tenente Rommel, conquistatore del Matajur, ebbero modo di spuntarsi le
corna contro i battaglioni alpini), sulle Melette e sui tre monti,
nell’altopiano dei Sette Comuni, si combattè una terribile battaglia
d'arresto, che durò, in pratica, fino al febbraio del 1918; ma, alla
fine, l’esercito si consolidò, e la bilancia cominciò a pendere dalla
nostra parte: paradossalmente, il nuovo fronte significava linee di
rifornimento più facili, lunghezza delle linee molto inferiore; e,
soprattutto, un poderoso stimolo per l’innata combattività che
dimostrano gli Italiani quando combattono per difendere le proprie case
(ricordate Legnano o Fornovo?), trasformando gli sfiduciati reduci di
Caporetto in un’armata ferocemente determinata a resistere.
Ora, i soldati non cantavano solo "Il general Cadorna…": cominciava a
diffondersi un’altra canzone il cui ritornello parlava del Piave che
mormorò "non passa lo straniero"; e lo straniero, stavolta, non passò.
Era finita la XII battaglia dell’Isonzo: ci era costata 10.000 morti,
30.000 feriti, 300.000 prigionieri, 350.000 sbandati e disertori, 3.152
cannoni, 1.732 bombarde, 5.000 mitragliatrici; l’esercito italiano, tra
il Brenta e il mare, poteva contare su non più di 300.000 uomini!
Ma erano uomini che la tragedia di Caporetto aveva profondamente
cambiato.
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Guerra sulle vette.
La guerra, in particolar modo per la 1a, la 4a armata e le truppe del
settore Carnia, si combattè quasi interamente in montagna, con quote
variabili tra i mille ed i quasi quattromila metri (Marmolada, Ortles,
Gran Zebrù, Cevedale, Adamello) e temperature invernali intorno ai
trenta gradi sottozero.
Se a questo si aggiunge che i due inverni, 1915-16 e 1916-17, furono
caratterizzati da straordinarie precipitazioni nevose e da un clima più
freddo della media del secolo, ci si renderà immediatamente conto delle
condizioni terribili in cui si trovarono a combattere i soldati degli
opposti schieramenti.
Non si può, perciò, capire fino in fondo il dramma della Grande Guerra
se non si tiene conto anche delle decine di migliaia di morti per
valanga, degli assiderati, dei congelati e delle inenarrabili sofferenze
di uomini costretti a sopravvivere, prima ancora che a combattere, in un
ambiente ancora oggi proibitivo.
I protagonisti tradizionali di questi epici scontri, che, nonostante
l’utilizzo di masse umane assai inferiori a quelle delle grande
battaglie isontine e carsiche, ebbero grande risonanza per l’alto valore
alpinistico di alcune imprese e per la temerarietà di ogni iniziativa
offensiva, furono, da una parte, gli Alpini e, dall’altra i Tiroler
Kaiserjaeger (TJR), tradizionali rivali di quasi tutte le battaglie sui
monti.
Questi due corpi ebbero, e mantengono ancora, un grande rispetto
reciproco, memoria dei mille gesti cavallereschi intercorsi tra loro in
tempo di guerra: da questa solidarietà, che accomuna i soldati della
montagna, è addirittura nata un’istituzione, emanazione dell’A.N.A., che
raduna tutti i soldati di montagna del mondo, l’IFMS.
Sarebbe, tuttavia, sbagliato pensare che soltanto gli Alpini ed i TJR
siano stati protagonisti delle azioni di questa parte di fronte: fanti,
bersaglieri, granatieri, da parte italiana, honvèd, kaiserschuetzen,
fanteria, landsturm, da parte austroungarica, insanguinarono le montagne
della lombardia, del trentino, del veneto e del friuli, al pari dei loro
più attrezzati commilitoni delle truppe da montagna.
Indichiamo, ora, con la solita estrema sintesi cui lo spazio ci
costringe, i principali settori del fronte che furono interessati dalla
guerra in montagna:
Settore Valtellina: teatro di scontri assai modesti sul piano strategico
e con truppe molto limitate (pattuglie, plotoni, compagnie), ma
caratterizzato da imprese straordinarie per lo scenario di altissima
quota in cui si combattè (zona dello Stelvio, Gran Zebrù, Ortles,
Cevedale);
Settore Valcamonica: ruotava sul massiccio Adamello-Presanella (con
quote superiori ai 3.000 metri), che ospitò masse di uomini anche
notevoli e vide tentativi di attacchi in massa, purtroppo quasi sempre
risoltisi in carneficine (Fargorida, Cavento); andava dal passo del
Tonale alle valli Giudicarie;
Settore Val Lagarina: dalle valli Giudicarie a Rovereto, con quote
sensibilmente più basse delle precedenti, ma pur sempre intorno ai 2.000
metri (Altissimo, Baldo, Coni Zugna), vide un notevole impiego di
fanterie da parte dei due schieramenti;
Settore Altipiani: vide l’utilizzo di grandi masse di uomini, in
operazioni di vasta portata (Strafexpedition, Operazione K, battaglie
d’arresto dopo Caporetto); nel sottosettore di Lavarone e Folgaria (val
Terragnolo, val d’Astico)vide, nella prima fase della guerra, notevoli
scontri di artiglierie tra i forti delle due parti, che dominavano la
parte occidentale dell’altipiano dei Sette Comuni.
Settore Cordevole: zona di montagne con quote non elevatissime, ma con
scenari dolomitici molto aspri, si estendeva fra le Pale di San Martino
e il Pelmo.
Settore Cadore: scenario delle più note battaglie dolomitiche, andava
originariamente dalla val Boite alle sorgenti del Piave: di qui gli
italiani mossero per conquistare uno sbocco verso il Tirolo austriaco e
la valle della Drava. Non vi furono grandi ammassamenti di truppe,
tuttavia si verificarono scontri anche di un certo rilievo
Zona Carnia: interessava la zona Comelico, Peralba, valle Uccea, con uno
scenario montano aspro e carsico ed un notevole utilizzo delle fanterie;
Alpi Giulie: montagne brulle e quasi del tutto prive di acqua, con quote
intorno ai 2.000 metri, ma anche superiori (Rombon, M.te Nero, Jof
Fuarte, Montasio); furono interessate direttamente dalla XII battaglia
dell’Isonzo, che vide spesso l’isolamento dei reparti che tenevano le
posizioni più elevate.
I fatti d’arme più importanti che interessarono questa parte di fronte
avvennero tutti nella zona degli altipiani (CTA), e videro gli opposti
schieramenti fronteggiarsi in battaglie, ora difensive , ora offensive,
che si combattevano ciclicamente sulle stesse posizioni.
Il 15 maggio del 1916, dietro le pressioni del maresciallo Conrad, due
armate a.u., l’XI e la III, appoggiate da un migliaio di cannoni,
scatenarono tra Adige e Brenta una poderosa offensiva, allo scopo di
sfondare le difese italiane della zona altipiani e sfociare nella
pianura vicentina; l’offensiva, che era nota a tutti ufficiosamente come
"Strafexpedition", cioè ‘spedizione punitiva’, mirava anche a punire
l’Italia per il suo tradimento della Triplice Alleanza (e bisogna
ammettere che gli A.U. non avevano proprio tutti i torti ad essere
infuriati con noi!),e aveva, perciò, una valenza emotiva non comune.
In un mese (15/5-16/6), le truppe a.u. occuparono praticamente tutto
l’altopiano dei Sette Comuni: resisteva soltanto una sottile linea sul
bordo meridionale dell’acrocoro, in corrispondenza di rilievi divenuti
leggendari per la granitica resistenza italiana: il Pasubio, il
Priaforà, il Cengio, il Lemerle, lo Zovetto, il Fior.
Molte di queste cime precipitavano a strapiombo sulla pianura; e molti
dei loro difensori, esaurite le munizioni, precipitarono nel vuoto,
avvinti ai soldati nemici, in un disperato corpo a corpo.
Questa resistenza non fu vana: la sera del 16 giugno il C.S. austriaco
ordinava di passare alla difensiva; la Strafexpedition era finita.
Subito, gli Italiani contrattaccarono, approfittando dell’arretramento
tattico del nemico: il 24 luglio, riconquistate Asiago ed Arsiero, la
linea si stabilizzò sui caposaldi rappresentati dai monti Majo, Cimone,
Zebio e da cima Caldiera.
Il 10 giugno del 1917, circa 300.000 italiani attaccarono le linee a.u.
sugli altipiani, mirando all’immediata conquista dei monti Zebio ed
Ortigara, allo scopo di scardinare le difese nemiche e costringere gli
A.U. a calare in Val Sugana.
L’azione fu dispersa in mille rivoli e mal condotta: non si tenne conto
delle avverse condizioni climatiche, né si arrestò l’attacco dopo i
primi, terrificanti, massacri.
In quella che fu nota al mondo come battaglia dell’Ortigara, durata fino
al 26 giugno, le perdite italiane, paragonabili a quelle di una
battaglia isontina, avvennero per la maggior parte in 2 km di fronte:
28.000 uomini, tra cui 22 battaglioni alpini, pressochè distrutti.
In quell’inferno inimmaginabile, i valorosi fanti della brigata Regina
urlavano: "Ridateci il Carso!"; eppure, l’Ortigara fu presa, anche se
per pochi giorni e senza alcuna possibilità di avanzare sugli obiettivi
strategici.
Se mai esisterà un simbolo della canaglieria e della stupidità dei
generali ‘vej Piemont’, quello è la montagna maledetta, che, monumento
terribile, domina il vallone dell’Agnellizza, cupa e senza un filo
d’erba.
Il 27 gennaio 1918, più o meno dalla stessa linea di massima
penetrazione della Strafexpedition, raggiunta dopo Caporetto dagli A.U.,
nel corso della battaglia delle Melette, gli Italiani scattarono per
riconquistare i monti Valbella, Col del Rosso ed Echele, riuscendo
nell’intento il 31/1: questa vittoria ebbe un’importanza particolare,
perché fu la prima vittoria italiana dopo il grave rovescio isontino.
In seguito, i tre monti saranno persi e di nuovo ripresi, aggiungendo
morti ai morti.
Per ragioni di spazio, sorvolo sul glorioso (da entrambe le parti)
intermezzo del M.Grappa, perno di tutto il nostro dispositivo difensivo,
che vide la resistenza italiana per tutto l’inverno e tutta la primavera
successivi a Caporetto: spero mi si scuserà, e prometto che, alla prima
occasione dedicherò al Grappa qualche pagina monografica.
Curiosità.
Le prime truppe alpine utilizzate a spizzichi sulle altissime quote
dell’Adamello, avevano, in parte, ancora le divise della guerra di
Libia, che, come facilmente si può immaginare, erano del tutto
inadeguate ad una primavera a 3.500 metri.
Alcune tra le montagne che furono contese sanguinosamente per tutta la
guerra, furono abbandonate agli A.U. proprio all’inizio delle ostilità,
con macroscopici errori strategici, che costarono sforzi immani per la
loro riconquista, che non sempre ci fu (Scorluzzo, P.sso Paradiso,
Colsanto).
Dal Piave a Vittorio Veneto.
Il 15 giugno 1918, iniziava la battaglia del Solstizio, o, meglio,
l’operazione Albrecht.
Gli A.U. dovevano sfondare il fronte italiano, per ottenere una pace
favorevole, mentre la monarchia si stava sfaldando sotto la spinta dei
nazionalismi e della crisi economica; così attaccarono al Tonale
(operazione Lawine), sui soliti altipiani e sul Grappa (operazione
Radetzky) e sul Piave (operazione Albrecht, appunto).
L’esercito che stava loro di fronte, però, era un esercito riarmato con
mezzi più moderni, con facili vie di rifornimento e con reparti
ricostituiti grazie all’afflusso delle giovani reclute della classe
1899; anche il morale era alto, e, inoltre, gli Italiani detenevano il
dominio quasi incontrastato dei cieli.
Tuttavia, all’inizio, l’attacco a.u. penetrò nei territori di là dal
Piave, creando una grossa testa di ponte nella zona del Montello (una
specie di bassa collina sedimentaria), preoccupando gli alti comandi
(nuovo CSM era Armando Diaz), fino a raggiungere, il 20/6, il punto di
massima penetrazione.
Risultati anche meno rilevanti si erano ottenuti nel basso Piave.
Il 23 giugno, pressati dalle notizie da Vienna e dal contrattacco
italiano, gli A.U. avevano già ripassato il Piave: l’ultimo ruggito
della monarchia bicipite si era concluso con un nulla di fatto, se
escludiamo la perdita di 50.000 uomini; ora era solo questione di tempo.
Per gettare le basi di un passaggio vittorioso del fiume sacro alla
Patria, gli Italiani, con un’azione durata cinque giorni, tra il 2 ed il
6 di luglio del 1918, riconquistarono il delta del Piave; seguì un
interludio , che durò fino ad ottobre.
Il 24 ottobre, ad un anno esatto da Caporetto, oltre 3.500 cannoni
aprirono il fuoco, dal Brenta all’Adriatico: era la battaglia finale di
una guerra senza esclusione di colpi.
Dopo qualche difficoltà iniziale, gli italiani riuscirono a sfondare in
molti punti, mentre l’VIII armata di Caviglia e di Lord Cavan puntava su
Vittorio Veneto.
Per l’A.U. era il crollo: mentre le truppe più fidate (in particolare
quelle tedesche) resistevano disperatamente sul Grappa e sugli
altipiani, Sloveni, Bosniaci, Croati, Cecoslovacchi e, in parte,
Ungheresi, abbandonarono la lotta, iniziando un enorme esodo di
ripiegamento.
Naturalmente, l’Italia voleva conquistare quanto più territorio
possibile, prima del cessate il fuoco, in modo da presentare al tavolo
delle trattative una conquista di fatto (cosa fatta capo ha), che
difficilmente sarebbe stata messa in discussione: per questo si potè
assistere al bizzarro spettacolo di truppe a.u. ancora in piena
efficienza, che risalivano le valli alpine, superate dalle avanguardie
italiane, che correvano verso il Brennero, senza minimamente disturbarsi
a vicenda.
Sempre per questo motivo, il capitano a.u. Ruggera, che si era
presentato con la proposta di resa alle linee italiane di Serravalle
all’Adige già il 29 ottobre, assistette ad una incredibile sequenza di
tergiversazioni diplomatiche, atte a guadagnare tempo prezioso (i
soldati, nel frattempo, risalivano le valli).
Lo stesso fu per la commissione ufficiale d’armistizio, comandata dal
generale Weber.
Soltanto alle 18 del 3 novembre 1918, dopo una ridda di aggiustamenti e
di cambi di programma, tra Vienna, Roma e Baden, a Villa Giusti venne
firmato il protocollo d’intesa dell’armistizio, che prevedeva la
cessazione di ogni atto ostile da entrambe le parti entro le ore 15 del
giorno successivo.
Era finita la Grande Guerra sul fronte italiano.
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