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                                                                                                                                                                        L’ITALIA giolittiana 

L’ITALIA giolittiana   sostituisce, in ordine temporale, il tormentato periodo crispino e la scellerata avventura coloniale voluta dal Primo ministro Crispi; nella battaglia di Adua (1896), subiamo, dunque, il più clamoroso disastro militare che una nazione occidentale abbia mai subito in una guerra coloniale, e che costò all’Italia, in termini di perdite, più delle guerre risorgimentali. Comunque, caduto definitivamente il gabinetto Crispi, divenne capo del Governo Antonio di Rudinì , che, almeno all’inizio, parve intraprendere una politica meno autoritaria e repressiva di quella del suo predecessore: egli introdusse, oltretutto, blande riforme sociali quali, per esempio, l’assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro, o amnistiando qualche protagonista della rivolta dei Fasci Sicilani, che Crispi aveva schiacciato brutalmente, tra il 1893 ed il 1894: anno in cui venne anche messo fuori legge, fino al’96, il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (poi PSI).
Un aumento improvviso del costo del pane, dovuto ad un cattivo raccolto di grano, nel 1897, fu però fatale per il Primo ministro: di fronte ai disordini e ai saccheggi del popolo, Di Rudinì proclamò lo stato d’assedio a Napoli, Firenze e Milano. Proprio a Milano il generale Bava Beccaris, il 7 maggio del ’98, comandò l’Esercito di sparare con l’artiglieria sui dimostranti: un’ottantina di morti restarono sul selciato: il re Umberto I ( senza alcun tatto diplomatico ) decorò oltretutto il suo fedele, e delinquenziale, generale con l’ordine militare di Savoia. Naturalmente, contro questo atto di gratuita brutalità le forze riformiste parlamentari ( "le sinistre") insorsero contro il Di Rudinì, accusato di aver adottato misure contrarie ai principi basilari della libertà. Anche i conservatori, comunque, operarono per fare dimettere il Presidente del consiglio, reo, secondo loro, di scarsa intraprendenza e tempestività nella repressione: se fosse intervenuto subito (questa era l’accusa) non si sarebbe giunti alle cannonate in piazza. Tutto pareva spianare la strada ad una gloriosa rentrée di Giolitti, già primo ministro nel ’92 ed esponente di spicco di un riformismo moderato che si riconosceva nel liberalismo progressista, ma il Re decise altrimenti ed assegnò l’incarico ad un suo generale, Luigi Pelloux, che il parlamento non avrebbe voluto neppure come addetto alle corvées.
Anche Pelloux, secondo ed ultimo esponente di quei governi che la storia ricorda come "governi della sciabola", recitò all’inizio il ruolo del pacificatore, smorzando le iniziative poliziesche del De Rudinì, ma, poi, riaffermò la propria impostazione mentale di stampo militare, proponendo una serie di atti liberticidi: la restrizione del diritto di sciopero, di riunione e di associazione, l’allargamento della censura sulla stampa. Unico risultato dei tentativi di liberticidio legale del Pelloux fu la nascita di una prassi parlamentare, ad opera della sinistra, che sarebbe divenuta assai popolare in tempi più prossimi a noi: l’ostruzionismo; nonché lo schieramento all’opposizione di molti nomi di spicco del liberalismo, tra cui Zanardelli e lo stesso Giolitti. Le elezioni del giugno 1900 diedero a Pelloux una maggioranza assai risicata e, date le abitudini trasformiste del nostro parlamento, certo non tale da garantire buone possibilità di governo, così egli decise di cedere il passo e la poltrona al presidente del Senato, Giuseppe Saracco, moderatissimo liberale. Il governo di Saracco durò solo qualche mese ed è ricordato per i suoi tentennamenti, oltrechè per aver assistito al regicidio di Umberto I, assassinato a Monza, il 29 luglio del 1900, dall’anarchico Bresci, venuto apposta dagli Stati Uniti a vendicare i caduti di Milano e le decorazioni di Bava Beccaris.
Dopo la morte di un re che gli agiografi, non trovando niente di meglio, felicitarono dell’aggettivo "buono", che vuol dire tutto e niente, il suo successore Vittorio Emanuele III, inaugurò il proprio regno affidando l’incarico di presiedere il consiglio dei ministri all’insigne giurista liberale Giuseppe Zanardelli, il padre del nuovo codice penale, che affidò il dicastero degli Interni proprio a Giolitti, quasi ad indicarlo come suo alter ego e (evidentemente) successore in pectore. Dopo nemmeno tre anni (novembre 1903) dal suo insediamento, Zanardelli si dimise per motivi di salute: nulla poteva ormai impedire l’ascesa definitiva di Giovanni Giolitti; e, infatti, il politico di Dronero subentrò al suo mentore. Lo statista piemontese sarebbe rimasto al governo, quasi ininterrottamente, fino alla vigilia della Grande Guerra, dando all’Italia quell’impronta e quel carattere che prendono il nome di Età Giolittiana. L’ETA’GIOLITTIANA L’Italia che Giolitti si trovò a governare non era certo un paese prospero o tranquillo, nonostante le enormi potenzialità che si erano già manifestate: alcune occasioni, come quella di diventare il porto d’Europa verso il sud-est, dopo l’apertura del canale di Suez (1869), erano già per buona parte sfumate; l’emigrazione era una piaga enorme, l’analfabetismo interessava ancora quasi il cinquanta per cento degli adulti, la rivolta sociale minacciava di scoppiare ad ogni giro di vite: bisognava costruire infrastrutture, trovare sbocchi lavorativi, pacificare la società. L’Italia, a differenza di quasi tutti i paesi europei, non possedeva, salvo la modestissima Somalia, annessa nel 1905, colonie da cui attingere materie prime a basso costo e verso cui deviare le grandi masse, soprattutto contadine, di disoccupati o sottoccupati; non aveva carbone e la sua agricoltura, salvo alcune zone particolari del Paese, era ad uno stadio arretrato: in seguito al trattato del Bardo, con cui la Francia, di fatto, si annettè la Tunisia (1881) e ad un’aspra contesa economica coi transalpini, il governo italiano, nel 1882, aveva aderito ad un’alleanza difensiva con l’Austria Ungheria e con l’impero germanico, di cui re Umberto I era grande ammiratore, ma questa alleanza non riscuoteva grandi entusiasmi nella popolazione, cresciuta nel culto della lotta risorgimentale contro il "nemico ereditario" e risultava, in termini di politica estera, poco fruttifera per il nostro Paese. Inoltre, il nostro era uno stato giovane, scarsamente omogeneo nella popolazione e politicamente poco evoluto; insomma, Giolitti avrebbe dovuto mettere le mani in un bel gomitolo di problemi. Ma quello che sarebbe divenuto il "boja labbrone", aveva le idee chiare, oltre che un fiuto rabdomantico per mantenere la poltrona; si può ammirare o disprezzare Giolitti per una serie di motivi, ma un fatto è certo: confronto ai presidenti del consiglio dei nostri giorni, la sua fu una generazione di giganti! La prima cosa che Giolitti fece, fu di prendere atto dell’esistenza di un cambiamento in corso nel Paese, dovuto alla crescita industriale: da una parte erano mutati i presupposti stessi dei rapporti di lavoro, dall’altra, masse sempre più imponenti di lavoratori premevano per avere una maggiore importanza come soggetto politico e per ottenere riforme sociali, aderendo compattamente al Partito Socialista. Il primo ministro comprese che queste forze politiche non potevano essere, semplicemente, bollate di sovversivismo e, quindi represse duramente: era necessario che entrassero, debitamente emendate dei loro aspetti più eversivi, nel sistema liberale giolittiano. Era la quadratura del cerchio: da una parte la rinuncia all’utilizzo della forza contro le manifestazioni dei lavoratori, sancita dall’atteggiamento del governo in occasione del primo sciopero generale italiano (1904), smorzò l’esasperazione delle sinistre e, dall’altra, gli imprenditori illuminati videro in questo paternalismo umanitario la valvola di sfogo che li preservava da problemi maggiori. Agli imprenditori meno illuminati non restava che assoldare i loro freikorps privati, per reprimere, per così dire, in proprio, le manifestazioni sindacali: si tratta di un precedente interessante, che trovò larga imitazione al tempo dello squadrismo fascista dell’immediato dopoguerra. L’idea chiave di questa posizione di Giolitti verso il rapporto tra datori di lavoro e dipendenti prende il nome di "neutralità statale"; essa postulava il non intervento dello stato nella contrattazione tra domanda ed offerta di lavoro, che dovevano misurarsi solo sul piede di un libero mercato, unico fattore a determinare i salari. Psicologicamente, così, agli occhi del proletariato chi era colpevole di eventuali nequizie salariali non poteva essere lo Stato: Giolitti indicava ai lavoratori nuovi nemici; non era più il tempo di Bava Beccaris! Il Partito Socialista, nel frattempo, doveva risolvere una grave crisi interna, che descriviamo un po’ sbrigativamente come il contrasto tra i cosiddetti "rivoluzionari", che sostenevano la via dal basso al riscatto sociale del proletariato, ed i "riformisti", che credevano in una possibilità parlamentare di cambiamento della società. Questi ultimi erano l’interlocutore privilegiato di Giolitti, e, in particolare, il loro leader Filippo Turati, cui Giolitti propose a più riprese di fare parte del suo governo. Per evitare di giungere a quella scissione che, inevitabilmente, poi ci fu, Turati non accettò l’offerta del primo ministro, pur condividendone l’impostazione politica: lui, Treves, Bonomi, Bissolati e, in definitiva, coloro che erano l’incarnazione di un socialismo democratico, si avviavano, inevitabilmente, ad una sconfitta contro chi li voleva superare a sinistra, come Serrati, Lazzari o il rampante dirigente rivoluzionario Benito Mussolini, che sarebbe stato l’autore dell’OdG che li espelleva dal partito, in occasione del congresso di Reggio Emilia, nel 1912, con il plauso di Lenin. Se i Socialisti litigavano su tutto, neppure per Giolitti, comunque, erano tutte rose e fiori, poiché egli doveva perennemente barcamenarsi (attività in cui eccelleva) tra le tensioni delle sinistre e le preoccupazioni dei moderati: questo, senza dubbio, rappresentò un forte vincolo alla sua attività riformista e causò il formarsi di un atteggiamento,a noi, purtroppo, ben noto, per il quale, più dell’attuazione dei programmi, contava il tenere unita una maggioranza che appoggiasse il governo, pur indossando la giubba di Arlecchino: dopo il no di Turati, Giolitti si spostò verso il moderatismo, strizzando l’occhio ai radicali. Nel panorama politico italiano, tuttavia, aleggiava l’ombra di un convitato di pietra, che ufficialmente non era un soggetto politico, ma che lo sarebbe ben presto divenuto e che rappresentava una larga fetta di elettorato potenziale: il mondo cattolico. L’Italia risorgimentale fu, senza dubbio, dominata dal laicismo, spesso dalla massoneria e, qualche volta, dal vero e proprio anticlericalismo: da una parte c’erano i Savoia, che avevano violato lo Stato della Chiesa e che avevano costretto il pontefice a rinchiudersi nelle mura leonine, cui si contrapponeva il "non expedit", il divieto per i cattolici di partecipare alla vita politica italiana. L’intransigenza pontificia verso i re d’Italia, però, vuoi per le guarentigie, vuoi perché i tempi cambiano, andava addolcendosi, e, già nel 1904, Papa Pio X aveva concesso, per arginare i successi socialisti, ai cattolici di alcuni collegi di votare per i liberali: si trattava di un passo modesto, ma, in proiezione, di grande importanza. Al posto delle organizzazioni di cattolici più intransigenti iniziò ad affermarsi l’Azione Cattolica, di posizioni assai più vicine al sociale (ed al politico), mentre don Luigi Sturzo poneva le basi per la nascita del Partito Popolare, che sarebbe divenuto il punto di riferimento dell’elettorato cattolico italiano. Il rientro ufficiale dell’elettorato cattolico in politica fu sancito da un patto che impegnava i liberali, eletti in parlamento coi voti dei cattolici, ad opporsi ad ogni iniziativa legislativa contraria alla morale cattolica: dal nome del suo ideatore, questo patto fu noto come "patto Gentiloni"e venne applicato in occasione delle prime elezioni politiche a suffragio universale maschile, nel 1913. Nel frattempo, Giolitti cercava di dare la propria impronta al Paese, mettendo, però, anche in luce quei limiti che la situazione politica poneva alle sue riforme. La politica estera vide un riavvicinamento progressivo alla Francia, iniziato nel 1902 con gli accordi Prinetti-Delcassé, che mise in posizione traballante la Triplice Alleanza e, se vogliamo, pose le premesse del Patto di Londra del 1915, che segnò lo schieramento dell’Italia accanto alle potenze dell’Intesa. Il progetto di risanamento del Mezzogiorno si limitò ad una serie di leggi speciali (niente di nuovo, insomma) che non dovevano assolutamente ledere gli interessi dei conservatori, che erano l’espressione della classe dominante meridionale, legata al latifondismo e con cui il primo ministro tessè rapporti non sempre adamantini. Quando, poi, mise mano alle infrastrutture, Giolitti dovette mandare avanti un suo prestanome, Alessandro Fortis, che governò tra il 1905 ed il 1906, giusto in tempo per fare approvare la legge di nazionalizzazione delle ferrovie, compreso un articolo che vietava lo sciopero dei ferrovieri, e raccogliere insulti e proteste del personale ferroviario, cui rispose con la forza pubblica: il timoniere di Dronero non si era sporcato le mani neppure questa volta. Nel febbraio 1906, salì al potere il combattivo livornese Sidney Sonnino, capo dei liberali non giolittiani, quello dell’inchiesta con Jacini sulle reali condizioni dell’agricoltura nel Mezzogiorno, che subito propose delle incisive (a dir poco) riforme, a base di bonifiche, ridistribuzione di terre, ridiscussione dei patti agrari eccetera; con quale entusiasmo delle baronie meridionali è facile immaginare. A maggio, Sonnino era già giubilato, a favore del ritorno in pompa magna di Giolitti, che sedette sullo scranno di primo ministro per quarantadue mesi filati, fino al dicembre del 1909. Principale atto di governo di questi anni fu la diminuzione dei tassi d’interesse sui titoli di Stato, che permise di diminuire il debito pubblico: la legge sulla conversione della rendita. Quando Giolitti, però, ripropose il suo vecchio progetto sulla tassazione progressiva dei redditi, che già aveva dovuto accantonare nel 1903, il Parlamento esplose ( a riprova del fatto che, quando si tocca il portafoglio, sono tutti d’accordo), e riapparve Sonnino (visto da tutti come l’antigiolitti per antonomasia) che fece il solito "mordi e fuggi", visto che fu sostituito solo tre mesi dopo dall’economista Luigi Luzzatti, che, a sua volta, lasciò il posto ad un quarto governo Giolitti, nel marzo del 1911, caratterizzato da una più marcata impronta riformista. Fu questo governo che s’imbarcò nell’impresa libica, anche se il primo ministro, personalmente, non ne era affatto convinto. Lo costrinsero alla guerra contro la Turchia le pressioni dei nazionalisti, capeggiati da Enrico Corradini, che chiedevano per l’Italia "un posto a sole"( e l’ultimo disponibile era, appunto, la Libia), e poi di quasi tutta l’opinione pubblica, socialisti rivoluzionari esclusi, che vedeva nella conquista del paese nordafricano la panacea per i problemi del Paese. Di fatto, chi ne trasse beneficio furono soprattutto i grandi industriali, che fabbricavano le armi ed i mezzi che la guerra assorbiva. La Libia nel 1911 nascondeva ancora nel suo sottosuolo quegli enormi giacimenti di petrolio che ne avrebbero determinato la ricchezza e, in termini coloniali, l’appetibilità: per molti era solo uno "scatolone di sabbia", reso desiderabile unicamente da considerazioni di politica coloniale in chiave antifrancese, dalle ambizioni imperialistiche di un paese giovane e dalle utopie migratorie di chi vedeva nel paese nordafricano la risposta ai milioni di italiani costretti a migrare verso le Americhe o l’Australia. D’altra parte, anche quando le truppe dell’Asse arrivarono ad arrestare la propria offensiva ad Alamein, nel 1942, afflitte da una terribile penuria di carburante, una sorte ironica le faceva transitare per la via Balbia sopra alcuni dei depositi petroliferi più cospicui del mondo, senza che nessuno ne sospettasse l’esistenza! Dei giorni della polemica sull’intervento o meno dell’Italia in Libia, quando il governo non assumeva una posizione chiara a riguardo, è la nascita del mito di un Giolitti espressione vivente dell’Italietta, un paese mediocre, incapace di grandi progetti e grandi imprese, governato da un primo ministro vile e sornione; immagine che avrà grande fortuna nel periodo fascista ed oltre. Più per conservarsi la poltrona che per un reale convincimento politico, Giolitti ruppe gli indugi e, subissato di contumelie da parte socialista, dichiarò guerra all’Impero Ottomano e fece sbarcare le truppe a Tripoli, il 29 settembre del 1911. Nel 1912, col trattato di Losanna, la Libia divenne una colonia italiana, con in soprammercato Rodi e le isolette del Dodecaneso. La guerra era tutt’altro che finita, però: nell’interno del paese continuava una guerriglia che fu contrastata da parte nostra con sistemi, a dir poco, sbrigativi, e che durò fino agli anni Trenta. Già durante il conflitto, comunque, i nostri soldati si erano mostrati assai diversi da quel popolo di bonaccioni che tanto dovette alla leggenda degli "Italiani brava gente": il lancio di gas velenosi (da noi stigmatizzato, quando lo applicarono gli austroungarici, sul San Michele, nella Grande Guerra) e le rappresaglie contro obiettivi civili sono un’invenzione tutta italiana, che ebbe nella guerra libica il suo laboratorio ideale. Al di là di qualche assegnazione di terre, perloppiù di difficile bonifica, tutto ciò che il proletariato italiano ottenne dalla guerra di Libia fu, da una parte, di partecipare alle prove generali di un dramma che l’avrebbe visto, di li a pochi anni, protagonista sull’Isonzo e sul Carso, e dall’altra di ottenere, in nome di un diritto acquisito combattendo, una legge che assegnava il diritto di voto a tutti i maschi maggiorenni; legge, questa, voluta da Giolitti per riconciliarsi con le sinistre, insorte, in nome del pacifismo, contro la "gesta d’oltremare". Nonostante questa dimostrazione di accondiscendenza, la stella del politico piemontese si avviava al declino, e le elezioni del 1913 non fecero che confermarlo, portando a Giolitti una maggioranza estremamente eterogenea e divisa, tanto che, nel marzo del 1914, egli dovette lasciare il posto ad un conservatore come Antonio Salandra, espressione del liberalismo di destra. In realtà, più che la fortuna politica di Giovanni Giolitti, ciò che tramontava era la fiducia in un sistema come quello democratico e liberale, che lui rappresentava: la guerra di Libia aveva messo a nudo i limiti di una politica giocata con reti di alleanze finalizzate alla sola conservazione del potere, portando alla ribalta una politica più legata alla piazza, dominata dai tribuni, più che dai diplomatici, e, soprattutto, in cui il conflitto sociale assumeva toni di aperto scontro, che presero nelle manifestazioni della "settimana rossa", del giugno 1914, i connotati di una vera e propria insurrezione. L’attentato di Serajevo, pochi giorni dopo (28 giugno 1914), avrebbe catalizzato l’attenzione del mondo, spezzando la Belle Epoque e dando il via ad uno dei più spaventosi conflitti della storia: con l’Italietta giolittiana, tramontava tutto un mondo, fatto di eleganza ed ingiustizia, che per secoli aveva caratterizzato l’Europa. Al loro risveglio, dopo l’immane catastrofe, i cittadini europei avrebbero constatato che nulla era più lo stesso.