Place alternate text for user who don't have Flash
---------------------------------------------------------------------
 
  
                               
                       
LA SECONDA GUERRA MONDIALE.
 
                        
	  LA 
	MAREA dell'odio 1939-1940
	
	
	
	
	Il potenziale militare tedesco nel 1939.
	
	
	Hitler si era meticolosamente preparato all’eventualità della guerra, anche 
	se andava dicendo ai suoi più stretti collaboratori, compreso il Duce, che 
	non sarebbe stato pronto militarmente (ed era vero) prima del 1942-43.
	
	
	Quello che però avrebbe potuto fare, nel breve tempo a sua disposizione, 
	l’aveva fatto: la Luftwaffe, l’arma aerea che per molto tempo era vissuta in 
	clandestinità, sotto le mentite spoglie degli aeroclub privati, si stava 
	dotando di una flotta di tutto rispetto, collaudata nella guerra civile 
	spagnola (la Legione Kondor).
	
	
	Le scelte strategiche dell’aviazione militare, col tempo, però, si 
	rivelarono errate: si puntò sull’utilizzo massiccio di bombardieri in 
	picchiata (lo Ju 87, più celebre come ‘Stuka’) e di aeroplani da 
	bombardamento medio-leggeri, come gli Ju 88, i Do 17 o gli Heinkel 111; 
	questa scelta, votata all’attacco al suolo di truppe e mezzi corazzati, se 
	potè rivelarsi molto valida contro nemici aeronauticamente insignificanti, 
	come i Repubblicani spagnoli o i Polacchi, con un avversario duro ed 
	organizzato come la Gran Bretagna, contro cui si trattava di bombardare 
	intere città, si dimostrò perdente.
	
	
	La Wehrmacht era ritornata ad essere un esercito efficiente, in cui, ai 
	vecchi generali di scuola "Potsdam" si erano affiancati giovani e brillanti 
	generali cresciuti nel culto della mobilità e delle armi nuove, come 
	Guderian, Manstein o i loro capi, Kleist e Rundstedt.
	
	
	La Kriegsmarine aveva una flotta sottomarina seconda per cifre solo a quella 
	italiana, ma certamente superiore per qualità dei mezzi, mentre si stava 
	potenziando la flotta di superficie con nuove unità da battaglia (Bismarck e 
	Tirpitz), potenti e moderni incrociatori, come il Prinz Eugen e corazzate "tascabili", 
	come la Graf Von Spee, potentemente armate, ma di tonnellaggio limitato per 
	sfuggire alle clausole internazionali.
	
	
	Inoltre, Hitler poteva contare su delle truppe combattenti d’élite, le 
	Waffen SS, bene armate, bene addestrate e di una fedeltà a tutta prova.
	
	
	E’ opportuno ricordare che queste Waffen SS non devono essere confuse con le 
	SS tradizionali, che avevano compiti di polizia politica e segreta e, in 
	seguito, di sterminio degli Ebrei e di gestione dell’Olocausto nei campi di 
	sterminio: le WSS erano reparti combattenti, certo fortemente fanatizzati e 
	politicizzati, ma il cui impegno fu quasi costantemente militare.
	
	
	All’inizio della campagna di Russia, tuttavia, l’RSHA, l’Ufficio Centrale 
	per la Sicurezza del Reich, in cui convergevano le forze di polizia di Stato 
	(Kripo, Gestapo) e quelle di partito (SD), che, in pratica, era nelle mani 
	del vice di Himmler, Heidrich, organizzò il massacro sul posto degli 
	abitanti ebrei delle zone occupate, contestualmente all’avanzata 
	dell’esercito: nel corso di questo genocidio itinerante (500.000 vittime nei 
	primi sei mesi), nei quattro gruppi che seguivano a brevissima distanza le 
	truppe d’avanguardia e che sterminavano ebrei e partigiani russi (Einsatzgruppen), 
	vi era una consistente aliquota di WSS, e, spesso, essi potevano contare 
	sull’appoggio logistico della Wehrmacht.
	
	
	Giova aggiungere che la Wehrmacht non aveva, solitamente, rapporti 
	particolarmente felici con le SS, che avevano,tra l’altro, propri gradi, 
	diversi da quelli tradizionali (esattamente come la MVSN fascista); anzi, 
	spesso, come vedremo nei prossimi inserti, proprio tra gli alti ufficiali 
	dell’Oberkommando Wehrmacht (OKW, d’ora in poi)maturarono numerosi i 
	complotti antinazisti.
	
	
	In realtà, è molto difficile stabilire le responsabilità generali di WSS ed 
	esercito nell’effettuazione, se non nell’organizzazione, dell’Olocausto; per 
	lo più è pratica storicamente corretta esaminare, laddove sia possibile, i 
	singoli casi e le relative responsabilità.
	
	
	Per esempio, un Einsatzkommando, nel luglio 1941, definiva l’esercito "gradevolmente 
	ben disposto contro gli Ebrei" (Erfreulich gute Einstellung gegen die Juden).
	
	
	Si devono, inoltre, distinguere i Pogrom non di matrice tedesca, come quello, 
	terribile, del 28 ottobre 1941, che operarono i Romeni a Odessa.
	
	
	Ma di tutto questo parleremo nel dettaglio in un prossimo inserto.
	
	
	Tornando ai preparativi per la guerra, se non era pronto al 100%, nel 1939, 
	Hitler poteva contare su di un esercito di tutto rispetto, almeno per una 
	guerra circoscritta nel tempo e nello spazio; esattamente a questo pensavano 
	all’OKW, quando si cominciò a parlare di Blitzkrieg, di ‘guerra lampo’: 
	d’altra parte, non erano state fulminee le vittorie politiche del Nazismo?
	
	
	L’occupazione incruenta dell’Austria e della Cecoslovacchia contribuì 
	certamente ad accrescere l’ottimismo di Hitler e la fiducia nei propri mezzi; 
	bisogna dire, però, che dall’altra parte della barricata si stava 
	colpevolmente sottovalutando il caporale di Braunau.
	
	
	
	
	Gli Alleati nel 1939.
	
	
	Negli anni ’20, un generale francese del Genio reduce da Verdun, André 
	Maginot, sottopose al governo un progetto difensivo della frontiera 
	orientale della Francia, che tenesse conto dell’esperienza fatta nella 
	terribile battaglia d’arresto del 1916: un sistema flessibile di forti, 
	blockhaus, opere di scavo ed apprestamenti sotterranei, in grado di 
	resistere ad urti massicci di truppe e a bombardamenti pesanti e 
	pesantissimi.
	
	
	Nacque così la "Linea Maginot", che, anche se il suo ideatore non fece in 
	tempo a vederne il collaudo, si rivelò uno dei più clamorosi buchi 
	nell’acqua nella storia delle opere campali, dato che i comandanti francesi 
	guardarono a lei con una fiducia cieca, abbandonando qualsiasi altra 
	considerazione (a parte un giovane generale di divisione di larghe vedute, 
	che farneticava di carri armati e di guerra manovrata: Charles De Gaulle): 
	solo l’opinione pubblica francese riuscì a fare peggio dei suoi strateghi, 
	giudicando, con icasticità tutta transalpina, la Linea assolutamente 
	invalicabile, nientemeno!
	
	
	Il problema, come vedremo, fu che, se i generali educati a Saint-Cyr erano 
	ipnotizzati dalla loro idea fissa della "Maginot", i Tedeschi non lo erano 
	affatto, e, con praticità teutonica, decisero che se la linea difensiva 
	francese era davvero insuperabile, la cosa migliore era quella di girarle 
	attorno; il che, puntualmente, fecero.
	
	
	Poco meglio erano messi gli Inglesi, che, rallentati nel momento cruciale 
	dalle manie di appeasement di Chamberlain, erano ancora in alto mare, mentre 
	Hitler invadeva la Boemia e Mussolini si prendeva l’Albania (7 aprile 1939): 
	l’Home Fleet era ancora la marina militare più potente del mondo, ma 
	l’esercito era poco numeroso e male comandato e l’aviazione aveva da poco 
	varato una massiccia operazione di rafforzamento, con l’introduzione in 
	linea di nuovi modelli di caccia e di bombardieri.
	
	
	Tuttavia, gli Inglesi, almeno sul versante difensivo, avevano un enorme 
	vantaggio rispetto agli alleati francesi: tra loro ed il Vecchio Continente 
	c’era di mezzo il mare e possedevano il Radar, che si sarebbe rivelato 
	cruciale quando, nell’estate del 1940, durante la Battaglia d’Inghilterra, 
	non c’erano abbastanza aerei per essere dappertutto e, perciò, bisognava 
	conoscere quantità ed esatta direzione delle formazioni nemiche.
	
	
	Anche nel Regno Unito c’era chi, come Winston Churchill, si sgolava sulle 
	nuove armi e le nuove strategie ad esse legate, ma non gli si dava troppo 
	credito.
	
	
	Certamente, se pensiamo al colossale granchio mussoliniano sulla necessità o 
	meno di costruire portaerei in Italia; o alla scelta di puntare sui biplani 
	per i caccia e sui trimotori per i bombardieri fatta dall’aviazione italiana, 
	o, infinitamente peggio, al costume folle dell’industria aeronautica 
	italiana di costruire modelli di velivoli simili ma non compatibili tra loro 
	in termini di ricambi, ci rendiamo conto del fatto che, a posteriori, è 
	facilissimo valutare le esigenze belliche di un paese, ma che, viceversa, 
	prevederle sia cosa difficile assai.
	
	
	Per concludere, comunque, possiamo dire che il potenziale militare degli 
	Alleati era, nel 1939, quantitativamente pari o superiore a quello tedesco, 
	ma che gli era, invece, di molto inferiore in termini qualitativi e, 
	soprattutto, strategici, ancorato com’era ad un’idea di difesa fissa che, 
	come vedremo, permetterà a Hitler di mettere in atto con tutto comodo il suo 
	piano d’attacco.
	
	
	
	
	Hitler e Stalin.
	
	
	Un dittatore ben difficilmente si fida di un collega: sa perfettamente che 
	l’autocrazia si fonda sulla paura, sull’inganno e sul camaleontismo.
	
	
	Hitler e Stalin non sfuggirono a questa regola: i due non si fidavano l’uno 
	dell’altro, ma si capirono benissimo quando si trattò di fare a metà di una 
	razzia.
	
	
	Oggi, la storiografia corretta, glissa con imbarazzo quando si pone la 
	domanda fatidica: "Chi ha fatto scoppiare la seconda guerra mondiale?".
	
	
	Siamo certi che, se la stessa questione si ponesse, alla vigilia degli esami 
	di Stato, in una qualsiasi classe quinta di una qualsiasi scuola superiore 
	italiana, posto che l’insegnante, alla fine dell’anno, fosse arrivato fin 
	qui, il che è da dimostrare, la risposta all’unisono sarebbe: "Hitler!".
	
	
	Ahimè, sarebbe bello e comodo se le cose fossero andate così: quante 
	acrobazie retoriche di meno ci sarebbero, a questo punto, sui manuali di 
	storia!
	
	
	Stalin costretto ad accordarsi con Hitler perché non pronto alla guerra 
	contro il male; Stalin che sperava di vedere riconosciuto il legittimo 
	possesso dell’Urss sulle repubbliche baltiche; Stalin tirato per i baffi e 
	per i capelli ad accettare l’alleanza nazista dalla sfiducia delle 
	democrazie occidentali….
	
	
	Vogliamo dire com’è andata?
	
	
	Due immensi delinquenti, ragionando da delinquenti, si sono spartiti 
	cinicamente dei territori la cui unica colpa era quella di trovarsi vasi di 
	coccio a viaggiare con vasi di ferro; e lo hanno fatto, al di là di ogni 
	altra considerazione, perché l’essenza del loro potere era la stessa.
	
	
	Così, sarà bene ricordare una volta per tutte che la seconda guerra mondiale 
	l’hanno dichiarata e fatta, concordemente, i nazisti tedeschi ed i comunisti 
	sovietici: mentre Hitler occupava la Polonia da ovest, Stalin invadeva la 
	Polonia da est, e con lei Estonia, Lettonia e Lituania, considerate costole 
	della madre Russia.
	
	
	Dunque, se la diplomazia occidentale, isolandolo, aveva gettato Mussolini 
	nelle braccia di Hitler, fino alla firma del "Patto d’Acciaio"(22 maggio 
	1939), che trasformava le dichiarazioni d’amicizia dell’Asse Roma-Berlino in 
	una vera alleanza militare, lo stesso aveva fatto con Stalin, di cui (anche 
	questo è bene lo si sappia) nessuno, ad ovest della Berezina, si fidava.
	
	
	Così, il 23 agosto 1939, in virtù di uno di quei miracoli che solo nelle 
	rarefatte sfere della diplomazia avvengono, i fucilatori di Barcellona ed i 
	bombardatori di Guernica si strinsero la mano (con quale entusiasmo degli 
	antifascisti, che avevano salutato in Stalin la diga contro l’espansione 
	nazifascista nel mondo, è facile immaginare); e siglarono un patto di non 
	aggressione che si chiamò patto Ribbentrop-Molotov, dal nome dei due 
	ministri degli esteri che, materialmente, lo stipularono (non vi state 
	sognando nulla: è proprio lo stesso Joachim von Ribbentrop impiccato a 
	Norimberga!).
	
	
	In un protocollo che, per ovvi motivi, venne tenuto segreto, la Germania 
	dava il suo benestare all’occupazione sovietica di qualche sparuto paesetto 
	orientale, come, appunto, le repubbliche baltiche, la Finlandia, la 
	Bessarabia romena e, naturalmente, una bella fetta di Polonia.
	
	
	
	
	Il Giappone.
	
	
	La crisi economica del ’29, che aveva messo in ginocchio l’economia di mezzo 
	mondo, non aveva certo risparmiato il Giappone, che, proprio in quegli anni 
	stava espandendosi commercialmente in Asia.
	
	
	Naturalmente, le conseguenza della grande crisi pesarono moltissimo su di un 
	Paese a forte vocazione industriale, ma del tutto dipendente dall’esterno 
	per l’approvvigionamento di materie prime e, perciò, dai commerci esteri.
	
	
	Vedendo crollare il mercato dell’esportazione dei propri prodotti lavorati, 
	il Giappone si trovò nella necessità di riprendere a praticare quella 
	politica imperialista, che già era stata sua ai tempi della guerra 
	russo-giapponese del 1904, iniziando a conquistare territori sul continente 
	asiatico.
	
	
	Questo, tra l’altro, nella logica del Mikado, avrebbe risolto sia i problemi 
	legati a materie prime e ad esportazione, che quelli connessi con 
	l’esplosione demografica.
	
	
	Perciò, l’esercito giapponese passò all’offensiva proprio da dove si era 
	fermato, cioè dalla Manciuria.
	
	
	Dalla fine della guerra contro la Russia, i Giapponesi occupavano 
	stabilmente la parte meridionale della Manciuria; non fu per loro difficile 
	trovare un pretesto per finire l’opera e, infatti, nel settembre del 1931, 
	le truppe del Sol Levante invasero i territori cinesi, proclamando, cinque 
	mesi dopo, il libero stato del Manciukuò, che, in realtà, era solo un 
	satellite nipponico.
	
	
	Nel 1933, col pretesto della condanna da parte della Società delle Nazioni 
	per il suo attacco in Manciuria, il Giappone uscì dalla SDN.
	
	
	Fu, tuttavia, a partire dal 1936, anno fatale, che i Nipponici iniziarono a 
	fare sul serio, dopo un colpo di stato militare, che trasformò il Mikado in 
	una sorta di dittatura, salvo restando il ruolo semidivino dell’imperatore; 
	tra il 1936 ed il 1941, il Giappone operò uno sforzo possente, dotandosi di 
	forze armate addestratissime e di mezzi aeronavali di prim’ordine, che 
	sarebbero dovuti servire alla conquista dei territori asiatici.
	
	
	In Asia, però, c’erano già degli imperialisti che sfruttavano le materie 
	prime: gli europei.
	
	
	Dovendo pestare i calli all’Europa, il Giappone si trovò nella necessità di 
	farsi anche qualche alleato in Occidente, e la sua scelta cadde sui paesi 
	politicamente più affini ed economicamente con meno interessi in Estremo 
	Oriente, ossia la Germania e, per conseguenza, l’Italia; ben presto, si 
	giunse alla firma del "patto anticomintern", tra Giappone e Germania (novembre 
	1936).
	
	
	Otto mesi dopo, nel luglio del 1937, il Giappone attaccò di sorpresa la Cina, 
	senza nemmeno scomodarsi a dichiarare la guerra e, in breve, ne occupò le 
	regioni più importanti.
	
	
	In concomitanza con l’invasione giapponese, i nazionalisti ed i comunisti 
	cinesi, che stavano combattendo una guerra civile tra loro, si misero 
	d’accordo e formarono un "fronte nazionale", in chiave antinipponica, 
	riservandosi di riprendere a scannarsi a guerra finita (come, infatti, 
	accadde), ed iniziarono una guerriglia contro i Giapponesi che durò, senza 
	soluzione di continuità, fino alla fine della seconda guerra mondiale.
	
	
	Occupata la Cina, di fronte al Giappone si aprivano le ricche colonie 
	inglesi e olandesi, nonché l’intero oceano Pacifico, che era, però, nella 
	sfera d’interessi degli Usa: si trattava di scegliere tra l’accontentarsi e 
	l’affrontare una guerra.
	
	
	Ma, come si sa, l’appetito vien mangiando…..
	
	
	
	
	La marea ad Oriente.
	
	
	L’1 settembre del 1939, alle prime luci dell’alba, le colonne motorizzate 
	tedesche invadevano la Polonia, dietro il pretesto di restituire alla 
	madrepatria l’unico sbocco polacco al mare, il cosiddetto "corridoio di 
	Danzica", che divideva la Prussia occidentale da quella orientale.
	
	
	In realtà, era solo il primo atto del più pauroso conflitto che la storia 
	ricordi: la seconda guerra mondiale.
	
	
	Questa volta, la reazione diplomatica di Francia ed Inghilterra non si fece 
	attendere, ed entrambe, il 3 settembre, dichiararono guerra alla Germania; 
	quarantotto ore dopo, USA e Giappone si proclamarono neutrali, mentre 
	l’Italia coniò, per definire il proprio atteggiamento, il termine "non 
	belligeranza".
	
	
	In due settimane, in pratica, la guerra in Polonia era finita, anche se si 
	sarebbero dovuti aspettare i primi di ottobre per la resa definitiva 
	dell’esercito polacco: la Blitzkrieg concepita dall’OKW si era mostrata 
	efficace oltre le più rosee previsioni.
	
	
	Il 17 settembre, intanto, l’Armata Rossa aveva invaso la Polonia orientale, 
	a scopo precauzionale; ossia per assicurarsi il rispetto tedesco delle 
	clausole segrete del patto Ribbentrop-Molotov.
	
	
	Iniziava per la Polonia un terribile quinquennio di occupazione nazista; fin 
	dall’inizio, Tedeschi e Sovietici si diedero da fare per sterminare la 
	classe dirigente polacca, gli ufficiali dell’esercito, gli intellettuali o 
	anche solo chi sapeva leggere e scrivere.
	
	
	Intanto si venivano radunando gli ebrei di Polonia, in vista della Endlösung 
	der Judenfrage, la soluzione finale del problema ebraico: nemmeno un anno 
	dopo, sarebbe stato aperto, proprio in Polonia, il campo di sterminio di 
	Auschwitz.
	
	
	Dopo il crollo della Polonia, però, il cannone ad Est non tacque a lungo: il 
	30 novembre del 1939, in un clima polare, l’Urss attaccò la Finlandia, con 
	il pretesto di alcune concessioni territoriali di frontiera.
	
	
	I Finnici si batterono bene (e si sarebbero battuti bene anche in seguito, 
	da alleati dei Tedeschi, sul fronte di Karelia e a Leningrado) e solo tre 
	mesi dopo, il 12 marzo 1940, si arresero e cedettero ai Sovietici i 
	territori fonte di contesa, conservando, tuttavia, la propria indipendenza.
	
	
	Diversamente andò alle repubbliche baltiche, occupate dall’Armata Rossa 
	nella primavera del 1940.
	
	
	Mentre Francia ed Inghilterra, sul fronte occidentale, giocavano alle belle 
	statuine, Hitler, il 9 aprile del ’40, attaccò di sorpresa la Danimarca (che 
	ebbe, per tutta l’occupazione, uno status privilegiato) e la Norvegia (che 
	faceva gola, per via delle sue miniere di ferro, anche agli Inglesi, che, 
	però si mossero tardi), conquistandole in un paio di mesi.
	
	
	
	
	La marea ad Occidente.
	
	
	Attaccando la Polonia con praticamente tutte le forze a sua disposizione, 
	Hitler aveva rischiato grosso: solo poche divisioni erano rimaste a 
	presidiare la linea Siegfried, che fronteggiava la francese Maginot, come 
	Davide con Golia.
	
	
	Godendo di una superiorità schiacciante, gli Alleati avrebbero potuto 
	facilmente sfondare il velo difensivo tedesco e puntare, indisturbati, sulla 
	Saar e sulla Ruhr, che erano il cuore industriale della Germania: le forze 
	contrapposte erano dell’ordine di venti a uno in loro favore, durante i 
	giorni cruciali dell’attacco ad oriente.
	
	
	Il Fuehrer lo sapeva benissimo, e pregò che il suo bluff non venisse 
	chiamato: un poco alla volta, sottrasse truppe all’ormai risolta campagna di 
	Polonia e le avviò al Reno.
	
	
	Intanto, gli Alleati non si decidevano ad intervenire e, benchè la guerra 
	fosse stata dichiarata a tutti gli effetti, per mesi, sul fronte occidentale 
	non si sparò che qualche colpo di fucile, tra le due linee contrapposte: era 
	la drôle de guerre, la guerra matta, in cui l’Europa rimase col fiato 
	sospeso per ben otto mesi, che, nelle speranze degli Alleati, avrebbero 
	dovuto piegare l’economia tedesca, con il blocco navale che la Home Fleet 
	aveva attuato.
	
	
	Sulle indecisioni degli anglo-francesi, pesava certamente il ricordo degli 
	spaventosi massacri di venticinque anni prima; essi non volevano ripetere 
	l’esperienza della guerra di trincea, e, aspettando a piè fermo, al riparo 
	delle casematte della linea Maginot o dietro la linea dei forti belgi, 
	l’attacco tedesco, diedero ad Hitler un vantaggio decisivo.
	
	
	Quando l’armata tedesca fu pronta e le condizioni meteo furono considerate 
	soddisfacenti, il 10 maggio del 1940, un’imponente massa di aerei e di mezzi 
	corazzati travolse tutto davanti a sé, dando un’ennesima, terribile, 
	dimostrazione dell’efficacia della tattica della guerra lampo.
	
	
	In un mese soltanto, gli eserciti di due tra le più temute potenze del mondo 
	furono sbaragliati: mentre i Francesi oliavano i loro poderosi cannoni, 
	nelle torrette corazzate della linea Maginot, i Tedeschi lanciavano 
	paracadutisti sui forti belgi, superavano i canali olandesi con i gommoni; 
	soprattutto, facevano passare le loro Panzerdivisionen attraverso le Ardenne, 
	che i Francesi avevano, col loro solito acume, definito "inattraversabili" 
	da parte di grosse formazioni corazzate.
	
	
	Questa volta, il "piano Schlieffen" aveva funzionato: le branche della 
	tenaglia si erano chiuse sul nemico, grazie alla maggiore velocità delle 
	truppe corazzate di Hitler rispetto alla fanteria del 1914; naturalmente, 
	facendo onore alla sua fama di gentiluomo, il Fuehrer si era guardato bene 
	dal dichiarare ufficialmente guerra a Belgio ed Olanda: i tempi della 
	cavalleria erano definitivamente tramontati, e si entrava in quelli della 
	guerra totale.
	
	
	A questo punto, Mussolini, che aveva scorte per soli tre mesi di guerra ed 
	aveva a lungo tergiversato con il collega tedesco circa il rispetto del 
	patto d’acciaio, ritenne che valesse la pena di correre il rischio, dato 
	l’imminente collasso del sistema difensivo francese; così, il 10 giugno del 
	1940, dal balcone di palazzo Venezia, il Duce annunciò all’Italia che 
	eravamo in stato di guerra con la Francia e la Gran Bretagna.
	
	
	Al canto di "E la Francia l’è una gran troia: Nizza e Savoia ci renderà…", 
	il 21 giugno del 1940, le truppe italiane ebbero il loro battesimo del fuoco 
	sul fronte occidentale; l’armistizio fu chiesto dai Francesi tre giorni più 
	tardi (si erano già arresi ai Tedeschi il giorno 22).
	
	
	Le nostre truppe, mal condotte e poco attrezzate, erano avanzate di 
	pochissimi chilometri in territorio francese; e questo primo, modesto scacco, 
	subito da una nazione ormai alla canna del gas, avrebbe dovuto fare 
	riflettere i capi dell’esercito sulla improponibilità di una nostra 
	partecipazione da protagonisti ad un conflitto in cui l’apparato produttivo 
	aveva un’importanza decisiva.
	
	
	Viceversa, l’Italia si gettò a capofitto in un’impresa che avrebbe, come 
	profetizzava il ministro degli esteri Ciano, compromesso il Paese ed il 
	Regime.
	
	
	La Francia, nel frattempo, si era arresa, come abbiamo detto, ai Tedeschi: 
	il doloroso compito di trattare la resa fu affidato ad un vecchio soldato, 
	l’eroe di Verdun, colui che aveva firmato il celeberrimo bollettino di 
	guerra intitolato On les aura, che era una sorta di simbolo del valore 
	francese: il maresciallo Pètain, che fu nominato plenipotenziario dal 
	Parlamento francese(17 giugno 1940).
	
	
	Il 22 giugno, nello stesso villaggio di Rethondes in cui era stata firmata 
	la resa della Germania nel 1918 e sullo stesso vagone, di proprietà del 
	M.llo Foch, su cui gli ufficiali del Kaiser avevano chiesto l’armistizio, i 
	Francesi si arresero alla Germania di Hitler.
	
	
	Il Fuehrer era al settimo cielo: la pugnalata alle spalle era stata 
	vendicata; i fantasmi di Verdun, della Somme, di Paschendaele, determinavano 
	ancora i destini d’Europa.
	
	
	La Francia fu divisa in due parti: Nord e Atlantico occupati militarmente 
	dai Tedeschi; e Sud, con capitale Vichy, governati da un regime 
	collaborazionista, presieduto da Pétain con primo ministro Laval.
	
	
	Esisteva, per la verità, una terza Francia, ancorchè solo virtuale: la "Francia 
	libera", proclamata dal generale De Gaulle dal suo rifugio londinese e 
	composta dai reduci francesi che erano riusciti a raggiungere la Gran 
	Bretagna: dai microfoni della BBC, De Gaulle esortava i Francesi a resistere 
	contro l’occupazione tedesca, creando quella che sarebbe diventata la 
	resistenza francese, il Maquis.
	
	
	Rimane da esaminare un ultimo capitolo della campagna occidentale del 1940, 
	quello, forse, più enigmatico: Dunkerque.
	
	
	Verso la fine di maggio, l’esercito britannico, senza più armi pesanti, 
	senza carri e senza copertura aerea, si trovava circondato nella sacca di 
	Dunkerque: sarebbe bastato poco, per le armate tedesche, per schiacciare 
	tutto quello che rimaneva all’Inghilterra in termini di soldati.
	
	
	Invece, inspiegabilmente, le truppe del Terzo Reich ebbero l’ordine di 
	fermarsi ed aspettare.
	
	
	Le ragioni di questo errore tattico, che avrebbe avuto conseguenze alla 
	lunga decisive sull’esito della guerra, possono essere diverse.
	
	
	Forse, Hitler temeva (anche se è poco probabile) qualche trucco degli 
	Inglesi; o, forse, pensava che, mostrando una specie di clemenza verso i 
	Britannici, questi avrebbero accettato di buon grado una resa a condizione, 
	in cui Germania e Regno Unito si sarebbero spartiti il pianeta: colonie 
	all’Inghilterra e Europa nell’orbita nazista.
	
	
	Oppure, Hitler aveva già in mente l’attacco al vero nemico di sempre, gli 
	Slavi, e, pensando al Lebensraum , vedeva una pace rapida con l’Inghilterra 
	come la scorciatoia per l’invasione dell’Urss.
	
	
	Se pensiamo alle letture di cui Hitler aveva nutrito il proprio fanatismo 
	(Chamberlain, Gobineau) e al suo rispetto, nato nelle trincee della prima 
	guerra mondiale, per i soldati britannici, potremmo azzardare che Hitler, 
	nella sua analisi farneticante della realtà, ritenesse gli Inglesi come 
	sostanzialmente affini, per razza e carattere, ai Tedeschi; egli, quindi, 
	sarebbe stato incline a pensare possibile un’alleanza "ariana", contro il 
	comune nemico slavo, che il gesto di buona volontà di Dunkerque avrebbe 
	favorito.
	
	
	Sono solo ipotesi, naturalmente; la verità è che gli Inglesi ebbero il tempo 
	di inviare a Dunkerque tutti i battelli disponibili (operazione Dynamo), 
	riportando a casa, tra il 27 maggio ed il 4 giugno, 350.000 uomini, tra cui 
	100.000 Francesi, mentre i Tedeschi, tardivamente, davano l’attacco alla 
	sacca e la bombardavano dal cielo.
	
	
	Forse, dire che Hitler perse la guerra a Dunkerque è un eccesso: in realtà, 
	almeno fino al 1942, le cose continuarono ad andare bene, e a volte 
	benissimo, per l’Asse; tuttavia, dalle spiagge di Dunkerque, oltre che 
	l’esercito inglese, i Britannici portarono a casa qualcosa di più importante 
	e di invisibile: la volontà di resistere. 
--------------------------------------
 
  Il mondo in guerra.
	
	(1940-1943).
	
	
	
	1940.
	
	Con l’occupazione della Francia da parte dei tedeschi, Hitler era padrone 
	dell’Europa continentale: praticamente tutto il Vecchio Continente, dalla 
	Norvegia alla Sicilia e dalla Polonia a Capo Finisterre, si trovava sotto 
	l’egida dell’Asse. La Francia, dopo l’armistizio del 22 giugno, era per metà 
	occupata dalla Wehrmacht e per metà sottoposta al governo collaborazionista 
	di Vichy; l’atteggiamento francese non era chiaro e, se da una parte c’erano 
	stati l’appello radiofonico di De Gaulle (18 giugno) da Londra e, per 
	conseguenza, la nascita della Francia Libera, cui avevano aderito diverse 
	colonie africane, dall’altra c’era stato l’episodio vergognoso di Mers el-Kebir, 
	nel quale le navi da battaglia inglesi avevano, proditoriamente, attaccato 
	la flotta francese nel porto africano, dato che questa si rifiutava di 
	consegnarsi, obbedendo alle disposizioni dell’armistizio (3 luglio). Il 
	sentimento antibritannico nelle colonie francesi crebbe, in seguito a questo 
	e ad altri episodi, come quello, di pochi giorni successivo a Mers el-Kebir, 
	dell’attacco alla corazzata Richelieu, alla fonda a Dakar: l’intesa tra 
	Francia Libera ed Inghilterra non fu, fin dall’inizio, idilliaca, e su 
	questi toni proseguì, fino alla polemica sull’entrata a Parigi di Leclerc, 
	nel ’44. Prova ne sia il fallimento del tentativo di sbarco anglo-gaullista 
	proprio a Dakar, il 23 settembre del 1940, in cui il comandante della 
	piazzaforte respinse con la forza i sedicenti alleati.
	
	Nel frattempo, Hitler aveva offerto alla Gran Bretagna una pace a condizione, 
	prontamente respinta dal ministro degli Esteri, Lord Halifax (22 luglio); 
	mentre gli stormi della Luftwaffe avevano già cominciato a colpire obiettivi 
	sul suolo inglese: iniziava la Battaglia d’Inghilterra. A proposito di 
	questo scontro leggendario tra le forze aeree tedesche quelle inglesi, è 
	opportuno sfatare qualche mito e chiarire qualche concetto.
	
	È probabilmente vero ciò che disse Churchill a proposito della Battaglia 
	d’Inghilterra, cioè che mai tanti avevano dovuto tutto a tanto pochi, però, 
	oltre ai valorosi piloti della Royal Air Force, almeno tre elementi 
	giocarono a favore dei britannici in quei due fatali mesi, agosto e 
	settembre del 1940, in cui si decisero le sorti della guerra. Tanto per 
	cominciare, gli inglesi possedevano un sistema radar sulle coste che era già 
	operativo e funzionava egregiamente, il che permise loro di economizzare e 
	dirigere sul bersaglio gli interventi dei loro intercettori.
	
	In secondo luogo, la loro industria aeronautica lavorava a pieno regime 
	nella produzione di caccia, mentre quella tedesca tendeva a cambiare 
	indirizzo ad ogni evoluzione del pensiero strategico hitleriano.
	
	Ultima, potentissima, atout nelle mani degli inglesi era la presenza al 
	vertice della Luftwaffe del Maresciallo del Reich, Hermann Goering.
	
	Egli, oltre a non avere azzeccato una sola scelta strategica in tutto il 
	conflitto, era rimasto contrariato, a suo tempo, dai successi della 
	Wehrmacht nella campagna di Francia, che avevano lasciato un po’ in ombra la 
	Luftwaffe; perciò, passò il suo tempo a boicottare iniziative anfibie contro 
	la Gran Bretagna, continuando a promettere al Führer che la sola arma aerea 
	avrebbe messo in ginocchio gli inglesi, senza neppure degnarsi di andare a 
	vedere coi propri occhi cosa stava succedendo al fronte. Clamorosamente, 
	proprio quando, ai primi di settembre, i bombardamenti dei campi d’aviazione 
	inglesi stavano per piegare la resistenza della Raf, Goering optò per un 
	cambio di tattica, iniziando i bombardamenti di Londra, tanto spettacolari 
	quanto, militarmente, poco efficaci. Dato che la promessa di portare alla 
	resa gli Inglesi bombardandoli dal cielo non era stata mantenuta e che, vuoi 
	per le condizioni della Manica, vuoi per la presenza preoccupante della Home 
	Fleet britannica, vuoi per l’incoercibile timore di Hitler per le operazioni 
	anfibie, l’operazione Seeloewe, ossia lo sbarco tedesco in Inghilterra era 
	stata, il 17 settembre, "aggiornata" sine die dal Führer, l’autunno vide 
	solo incursioni terroristiche nei cieli britannici, come quella che, il 14 
	novembre, distrusse per buona parte la città di Coventry: la Battaglia 
	d’Inghilterra era perduta. Ma i dispiaceri per i tedeschi non erano finiti: 
	gli italiani, in Africa, erano passati all’offensiva, conquistando la 
	Somalia Britannica (10 agosto) e scatenando un’offensiva nel Nordafrica 
	contro le truppe del generale Wavell (14 settembre); se non che Wavell, dopo 
	un paio di mesi di stasi, aveva ricacciato le truppe italiane, comandate da 
	Graziani, in Cirenaica; questo mentre gli Inglesi in A.O.I. avevano 
	duramente contrattaccato, penetrando in Eritrea ed in Somalia Italiana (gennaio 
	1941), liberando la Somalia Brit. (marzo 1941) e costringendo il valoroso 
	comandante italiano, il Duca d’Aosta, alla capitolazione dell’Amba Alagi (18 
	maggio 1941). Come se non bastasse, il 28 ottobre del 1940, Mussolini aveva 
	attaccato la Grecia, contando di fare una blitzkrieg balcanica.
	
	La realtà, tragicamente diversa per i nostri soldati, fu quella di un 
	conflitto in un Paese montuoso, senza strade, con un clima terribile e 
	contro un nemico che stupì perfino i propri alleati con la sua tenacia ed il 
	suo valore.
	
	
	
	1941.
	
	In Grecia, le nostre truppe, male equipaggiate e peggio comandate, 
	nonostante prodigi di eroismo, specialmente da parte delle divisioni alpine, 
	dovettero addirittura retrocedere, ed il conflitto, spostatosi in Albania, 
	rischiò di trasformarsi in un disastro.
	
	Per evitare questo cataclisma sullo scenario balcanico, contiguo a quello in 
	cui, di lì a poco, Hitler avrebbe scatenato l’operazione Barbarossa e, 
	soprattutto, per salvare il suo amico Mussolini da una terribile figuraccia, 
	Hitler, il 6 aprile del 1941, attaccò la Jugoslavia e la Grecia. Alla fine 
	del mese, gli Iinglesi evacuarono, dopo soli due mesi dal loro intervento a 
	favore dei greci, il Paese balcanico, che capitolò.
	
	I preparativi di Barbarossa, però, erano stati in tutta fretta posticipati, 
	e questo significava dimezzare il tempo utile per sconfiggere il colosso 
	sovietico prima della stagione piovosa, quella che in Ucraina, secondo un 
	proverbio, "Con un cucchiaio d’acqua produce un secchio di fango": nel 1941, 
	la stagione delle grandi piogge, in Russia, sarebbe cominciata il 10 ottobre!
	
	In realtà, l’esercito italiano, pur composto per buona parte da combattenti 
	di prim’ordine, era del tutto inadeguato in termini tecnici e strategici a 
	fronteggiare una guerra su vasta scala: gli aeroplani non avevano neppure 
	sistemi radio efficienti, le navi non avevano sistemi di puntamento 
	telemetrici e radar, il che le rendeva vulnerabili, soprattutto di notte, le 
	armi individuali erano antiquate, non c’era un solo modello di carro armato 
	che potesse anche solo lontanamente competere con gli equivalenti alleati, 
	sia per peso che per armamento, i rifornimenti erano tragicamente 
	problematici, sia nei Balcani che in Africa; insomma, tutto ciò che restava 
	al fante italiano era il proprio valore. Questo valore, purtroppo, rifulse 
	soprattutto nella disperazione, e senza influire sull’inevitabile esito 
	dello scontro. A questo si deve aggiungere la quasi proverbiale incapacità 
	dei comandanti di grandi unità, che faceva uno stridente contrasto col 
	valore e la capacità dei comandanti ai livelli più bassi, che, viceversa, 
	furono tra i migliori dell’intero conflitto.------------------------------------------------
 
   Che dire, per esempio, dello 
	sciagurato comportamento dei nostri ammiragli, che condussero la nostra 
	bella squadra di Taranto ad una serie di rovesci, di cui la beffa 
	dell’aereosiluramento dell’11 novembre 1940, che colpì la Cavour, la Duilio 
	e la Littorio, cioè metà della nostra flotta, alla fonda nel porto pugliese, 
	non fu che il prologo? La verità, tuttavia, è che l’entrata in guerra 
	dell’Italia, che, sulla carta, doveva rappresentare un aiuto notevolissimo 
	per la Germania, si rivelò quasi un peso, distogliendo truppe e materiali 
	dai progetti hitleriani.
	
	Mentre i suoi U-boot falcidiavano i convogli alleati, Hitler, intanto, si 
	preparava a quello che sarebbe stato l’attacco più poderoso della storia 
	militare: quello alla Russia sovietica, che, fin dai tempi del Mein Kampf, 
	egli aveva prefigurato come dovere politico della Germania 
	nazionalsocialista e come necessità tedesca di Lebensraum. Intanto, però, ai 
	successi dei branchi sottomarini di Doenitz e di Prien non corrisposero 
	uguali successi delle unità di superficie: il 27 maggio del 1941, la 
	Kriegsmarine perse la sua ammiraglia, probabilmente la più bella nave da 
	battaglia mai costruita, la Bismarck, resa ingovernabile dal siluro di uno 
	Swordfish e, in seguito, affondata dai cacciatorpediniere e dalle due navi 
	di linea Rodney e George V, seicento miglia ad ovest di Brest.
	
	I pensieri di Hitler, però, erano tutti per la grande impresa ad Est: almeno 
	in apparenza, l’esercito germanico, galvanizzato dai facili successi ad 
	Occidente, era una macchina poderosa ed invincibile. Il Führer diceva: "Il 
	peggiore fante tedesco è superiore al migliore fante straniero!". Questa 
	macchina, però, era in realtà assai meno potente di quanto non sembrasse a 
	prima vista: era raddoppiato il numero di divisioni corazzate rispetto 
	all’inizio della guerra, ma i carri erano scesi, in media, da 250 a 190 per 
	divisione, e l’industria tedesca non riusciva a produrre nemmeno la metà dei 
	600 carri mensili che aveva promesso. Hitler disponeva di circa 3.300 
	panzer, che sono una bella cifra, ma che erano solo 700 mezzi in più 
	rispetto all’esercito che aveva invaso la Francia; e la Russia non era la 
	Francia! Più dell’ottanta per cento dell’esercito tedesco si muoveva ancora 
	a piedi e la stragrande maggioranza dell’artiglieria era ippotrainata: ecco 
	perché la terribile stagione del fango russo non doveva trovare le truppe in 
	manovra, ed ecco perché il ritardo dovuto alla conquista dei Balcani si 
	sarebbe rivelato determinante. La vastità del suolo sovietico, infine, 
	imponeva una schiacciante superiorità aerea; invece, la flotta aerea sul 
	fronte orientale, all’inizio di "Barbarossa", avrebbe contato solo 720 
	caccia, 1.160 bombardieri e 120 ricognitori. Il problema vero della macchina 
	bellica hitleriana, però, è sempre stato il carburante: i carri ne avevano 
	per soli tre mesi di operazioni.
	
	Hitler avrebbe dovuto pazientare almeno altri tre anni, se voleva avere 
	qualche possibilità di successo: invece, quella che, all’inizio, parve una 
	cavalcata trionfale, si trasformò in un terribile calvario. Domenica 22 
	giugno 1941, tre diversi gruppi d’armate tedeschi, comandati rispettivamente 
	da Leeb (nord), Bock (centro) e Rundstedt (sud), per un totale di circa tre 
	milioni di uomini, scatenarono una poderosa offensiva contro l’Urss.
	
	Il 30 di giugno Leeb occupava la Lituania, Minsk venne accerchiata; l’8 
	luglio Bock era al Dniepr, il 7 agosto l’accerchiamento si estese a 
	Smolensk, il 25 Leeb entrò a Tallin, in Estonia, e puntò su Leningrado; 
	Rundstedt invase l’Ucraina e puntò su Odessa, Gomel fu accerchiata; il 19 
	settembre i tedeschi entrarono a Kiev. Nulla sembrava poter arrestare questa 
	serie impressionante di manovre a tenaglia, che distrussero un’armata 
	sovietica dopo l’altra; ma le armate di Stalin erano almeno il triplo di 
	quello che avevano preventivato gli strateghi dell’OKW. Ormai, i grandi 
	obiettivi di Hitler sembravano a portata di mano: Leningrado, Mosca, 
	Stalingrado ed i pozzi petroliferi del Sud.
	
	I sovietici, invece, dopo aver perso Kharkov, Rostov e la Crimea, 
	contrattaccarono e, a dicembre, per la prima volta bloccarono le truppe del 
	Reich, a pochi chilometri da Mosca: il 19 dicembre, l’OKW comunicò alle 
	truppe l’ordine di fortificarsi per la stagione invernale. Nella storia 
	della Seconda guerra mondiale ci sono stati momenti topici, in cui le cose 
	avrebbero potuto volgere a favore dell’uno o dell’altro: è quello che i 
	tedeschi chiamavano Schwerpunkt, punto di gravità, riferendosi a dove 
	premere per far evolvere favorevolmente una battaglia; certamente, uno di 
	questi momenti fu il dicembre 1941, perché non solo il sogno hitleriano di 
	prendere Mosca prima dell’inverno fallì, ma perché, dopo l’attacco 
	giapponese a Pearl Harbour, il 7 dicembre entrarono in guerra gli Stati 
	Uniti, con il loro potenziale industriale e militare del tutto 
	inimmaginabile per le nazioni europee. Churchill aveva vinto: egli aveva 
	legato ogni sua scelta all’entrata in guerra degli Usa, e quando questo fu 
	un fatto compiuto, egli seppe che la guerra, presto o tardi, sarebbe stata 
	fatalmente vinta dagli Alleati. Per il momento, però, ad un osservatore 
	esterno, la situazione sarebbe apparsa disperata per gli avversari dell’Asse: 
	la flotta del pacifico americana era stata messa fuori combattimento, Hitler 
	era alle porte di Mosca e padrone dell’Europa, gli inglesi in Africa erano 
	stati respinti dalle truppe di Rommel; eppure, proprio quando sembrava che 
	l’Asse potesse farcela, perse la lena: non ebbe più le energie per andare 
	avanti, e, da quel momento, le truppe tedesche, italiane e giapponesi 
	cominciarono, lentamente, prima a fermarsi e poi, inesorabilmente, ad 
	indietreggiare. 
	
	
	
	1942.
	
	I successi nipponici in Estremo Oriente diedero la medesima impressione di 
	fulmineità e di inarrestabilità di quelli tedeschi in Europa: un esercito 
	valoroso e ben comandato, una forza aerea di prima qualità ed una flotta 
	grande e moderna permisero ai soldati del Sol Levante di conquistare un 
	enorme territorio in tempi brevissimi.
	
	Il tallone d’Achille dei giapponesi era la mancanza di materie prime: dopo 
	le loro conquiste del 1942, essi, in teoria, potevano contare sulle enormi 
	risorse dei territori conquistati, ma, di fatto, non riuscirono a sfruttarle 
	che in minima parte. Gli Stati Uniti, viceversa, avevano subito un duro 
	colpo, a Pearl Harbour, quando gli aerei della squadra dell’ammiraglio 
	Nagumo avevano fatto a pezzi le navi di linea statunitensi, all’ancora nel 
	porto hawaiano, ma le loro tre portaerei di squadra erano sfuggite 
	all’attacco, e la loro industria aveva cominciato a produrre mezzi militari 
	a pieno regime: il comandante della Marina imperiale, Yamamoto, che ben 
	conosceva lo spaventoso potenziale bellico americano, era uno dei pochissimi 
	che non avevano condiviso l’enorme entusiasmo che aveva pervaso il Giappone 
	dopo il successo di Pearl Harbour, ed i fatti, presto, gli avrebbero dato 
	ragione. Subito dopo lo scoppio della guerra, ancora nel dicembre del 1941, 
	i soldati del Tenno avevano occupato Bangkok e l’importantissima base 
	britannica di Hong Kong; nel gennaio del 1942, in sole quattro settimane, i 
	giapponesi occuparono la Malesia, presero Manila, sbarcarono nelle Molucche, 
	in Nuova Guinea e alle Celebes. Il 15 febbraio, capitolò la grande base 
	inglese di Singapore, con i suoi poderosi cannoni ridicolmente puntati nella 
	direzione opposta a quella dell’attacco nipponico; i giapponesi sbarcarono 
	nella Sonda e occuparono Giava (28 febbraio). Per tagliare definitivamente 
	fuori la Cina, i soldati imperiali invasero, poi, la Birmania: Rangoon cadde 
	il 7 marzo; due giorni dopo si arrendevano gli ultimi olandesi su Giava.
	
	In aprile si videro l’occupazione nipponica di Sumatra (6) e la resa degli 
	americani a Bataan, nelle Filippine. Tuttavia, il vento stava già cambiando: 
	il 7 di maggio i giapponesi subirono una prima sconfitta aeronavale, nel Mar 
	dei Coralli (anche se, in termini di perdite, finì alla pari) e, il 18 dello 
	stesso mese, Tokio subì l’onta di un’incursione di bombardieri americani; ma 
	la vera svolta si ebbe con la battaglia delle Midway (3-5 giugno 1942), in 
	cui le portaerei americane ebbero la meglio sulle rivali giapponesi del 
	solito Nagumo, affondandole tutte e quattro e perdendo la sola Yorktown, già 
	danneggiata nel Mar dei Coralli. I giapponesi, in luglio e agosto sarebbero 
	avanzati ancora, occupando Guadalcanal, nelle Salomone; ma proprio da 
	Guadalcanal sarebbe partita la controffensiva statunitense, iniziata con il 
	celebre sbarco dell’Usmc (United States Marine Corp), il 7 di agosto. In 
	Africa settentrionale, il 1942 si era aperto con le forze dell’Asse che, 
	dopo un’offensiva inglese in novembre, che le aveva respinte entro Natale 
	del 1941 fino a El-Agheila, si preparavano a rispondere. Da El-Agheila, il 
	21 gennaio partì una controffensiva di Rommel, che avrebbe portato le truppe 
	italo-tedesche a Bengasi (29 gennaio) e poi a Bir-Hakeim (10 febbraio), da 
	cui, dopo una lunga stasi operativa, sarebbe partito lo sforzo finale 
	dell’Asse per arrivare ad Alessandria. Il 27 maggio 1942, la Volpe del 
	deserto calò il suo gioco, varcò la frontiera egiziana e puntò decisamente 
	sul delta del Nilo, occupando Tobruk; lo slancio offensivo si esaurì nei 
	pressi della depressione di Qattara, dove i due eserciti si fronteggiarono 
	fino al 24 ottobre: la località di massima penetrazione si chiamava "Due 
	bandiere", in arabo El-Alamein. In Russia, nel frattempo, dopo la lunga 
	pausa invernale, era iniziato il ciclo operativo del 1942; in Crimea, 
	Manstein aveva sfondato: l’1 luglio cadde Sebastopoli. Da Kharkov, Voronez e 
	Rostov, l’esercito tedesco attaccò verso il fiume Don, raggiungendo il Volga 
	a Dubovka e toccando le difese perimetrali di Stalingrado, il 20 luglio; il 
	27 agosto, la Wehrmacht era a 120 chilometri dal Caspio e dalle sue immense 
	riserve petrolifere, mentre, il 12 settembre, iniziava la battaglia di 
	Stalingrado. Una controffensiva sovietica, scattata il 19 novembre, 
	accerchiò la 6a armata del Feldmaresciallo Von Paulus, che si era 
	impadronita di gran parte della città di Stalingrado; a nulla valse il 
	tentativo di Manstein di aprire un varco nella sacca che circondava le 
	truppe tedesche; in un clima polare e in condizioni da inferno dantesco, gli 
	uomini di Paulus andarono incontro all’annientamento, combattendo oltre le 
	umane possibilità. Goering aveva assicurato 500 tonnellate al giorno di 
	rifornimenti aerei per i soldati nella sacca: la media giornaliera non 
	avrebbe, invece, mai superato le 96 tonnellate, mentre la razione di pane 
	giornaliero sarebbe scesa a 50 grammi per soldato… e, poi, nemmeno a quelli. 
	Il 2 febbraio 1943 la 6a armata non esisteva più. Nell’immenso dramma 
	dell’inverno 1942-’43, non può non avere un posto a sé la tragedia 
	dell’Armir italiana, schierata sul Don, tra ungheresi e romeni. Proprio 
	questi ultimi cedettero di fronte ad un attacco corazzato sovietico, il 18 
	novembre 1942; di qui sarebbe derivato l’enorme crollo che travolse l’intero 
	fronte e che vide gli italiani, nonostante il grande valore di alcuni 
	reparti, tra cui le tre divisioni alpine, Julia, Cuneense e Tridentina, 
	affrontare la terribile ritirata che costò quasi centomila uomini all’armata 
	italiana, sconsideratamente inviata nella steppa senza mezzi di trasporto, 
	con armi del tutto inadeguate e con un vestiario assolutamente insufficiente. 
	La fine del 1942 fu anche la fine delle speranze di vittoria dell’Asse: sul 
	fronte orientale l’esercito tedesco era tutt’altro che sconfitto e, dopo un 
	arretramento delle proprie posizioni, avrebbe avuto altri successi tattici, 
	ma le energie per ottenere la vittoria strategica erano esaurite; la 
	Germania non riusciva a rimpiazzare le proprie perdite, umane e di materiali, 
	mentre i sovietici continuavano a moltiplicare aerei, carri e cannoni, anche 
	grazie all’enorme aiuto fornito loro dagli Usa, che arrivarono a trascurare, 
	a favore della Russia, le forniture di materiali alle proprie truppe nel 
	Pacifico. Il 23 ottobre il comandante dell’8a armata britannica, Montgomery, 
	aveva sferrato un attacco poderoso ad El-Alamein ed era riuscito a passare, 
	nonostante l’incredibile eroismo dei difensori, tra i quali brillò in modo 
	particolare la divisione paracadustisti Folgore, che si immolò letteralmente 
	per contendere il terreno, metro per metro,  alle preponderanti forze 
	alleate. Il 13 novembre Montgomery era a Tobruk e il 20, cadeva Bengasi. In 
	Africa l’anno si concluse con una controffensiva di Rommel a El-Agheila, ma 
	erano gli ultimi colpi di coda: il 12 maggio del 1943 gli ultimi italiani e 
	tedeschi, a Capo Bon, si sarebbero arresi. La tappa successiva sarebbe stata 
	la Sicilia.
------------------------------
 
  A STALINGRADO AD HIROSHIMA
	
	
	
	Se il 1942 rappresentò il momento di maggior espansione territoriale delle 
	forze dell’Asse, con il 1943 esse cominciarono, seppure non sempre in 
	maniera clamorosa e con qualche ribaltamento di fronte, inesorabilmente a 
	ritirarsi in tutti gli scenari della guerra.
	
	Dopo la resa di Paulus a 
	Stalingrado (2 febbraio 1943), sul fronte russo le truppe sovietiche 
	avanzarono decisamente, conquistando Kursk, Rostov e Kharkov; il 25 di 
	febbraio, Manstein scatenò una controffensiva nel saliente conquistato, 
	riprendendo, il 18 marzo, Kharkov e Bielgorod; fino al luglio del 1943, il 
	fronte russo sarebbe rimasto stabile sulla linea Leningrado/Veliki-Luki/Orel/Kursk/Taganrog.
	
	In Africa settentrionale, dopo lo sfondamento di El Alamein e l’ultimo 
	tentativo di riscossa dell’Afrika Korps a Kasserine (14-22 febbraio), 
	appariva chiaro che la situazione stesse precipitando, tant’è che, ai primi 
	di marzo, Hitler richiamò Rommel in Germania, per evitargli l’umiliazione 
	della sconfitta; Patton e Montgomery, che guidavano le forze alleate 
	provenienti rispettivamente da Ovest e da Est, si congiunsero a El-Qattara 
	l’8 aprile: un mese dopo (12 maggio), le ultime truppe italo-tedesche in 
	Nordafrica avrebbero capitolato a Capo Bon.
	
	Anche sul fronte del Pacifico 
	le forze dell’Asse subirono un grave rovescio, anche se le perdite 
	assommarono, nella circostanza, ad un solo uomo: il 18 aprile, una 
	squadriglia di Lightning americani, guidati da un’intercettazione dei 
	servizi segreti, abbatterono l’aereo su cui viaggiava l’ammiraglio Yamamoto; 
	con lui moriva un eccellente stratega, ma anche l’unico uomo degli alti 
	comandi nipponici che fosse dotato di un grande realismo e di una chiara 
	visione dell’andamento del conflitto: si trattò di una perdita gravissima 
	per il Sol Levante e che avrebbe causato molti guai al Giappone.
	
	Il 1943 segnò, inoltre, l’inizio della campagna di distruzione sistematica 
	della Germania per mezzo di incursioni aeree; in preparazione allo sbarco 
	sul suolo francese, la RAF e l’USAAF attaccarono scientificamente i centri 
	industriali e i porti tedeschi, adottando la tecnica della divisione dei 
	compiti: gli americani colpivano gli obiettivi di giorno, con i loro B17 e 
	B24, mentre i Lancaster e gli Stirling inglesi attaccavano di notte, in 
	formazioni sempre più massicce, che spesso superavano i mille velivoli.
	
	Non era ancora il sistema dell’"Area bombing", cioè del bombardamento a 
	tappeto indiscriminato, ma ne era certamente il preludio; tutto ciò era 
	permesso dall’enorme superiorità di mezzi che faceva pendere decisamente la 
	bilancia dalla parte degli Alleati; la caccia tedesca doveva misurarsi con 
	formazioni sempre più compatte di incursori e con decine di migliaia di 
	mitragliere pesanti, che battevano il cielo intorno ai quadrimotori.
	
	L’industria bellica tedesca, 
	comunque, compì sforzi che hanno del prodigioso, nel periodo 1943-44, 
	moltiplicando il numero di aerei e di carri armati che uscivano dalle 
	fabbriche; tuttavia, il divario non poteva che aumentare continuamente, 
	tanto che, al tempo dello sbarco in Normandia (6 giugno 1944), gli Alleati 
	erano padroni incontrastati dei cieli, nonostante la comparsa dei primi 
	caccia tedeschi a reazione, i Me 262.
	
	Ancora più evidente era la 
	sproporzione di mezzi tra gli angloamericani e la Regia Aeronautica, che si 
	immolò letteralmente, prima contendendo al nemico i cieli d’Africa e del 
	Mediterraneo e poi quelli dell’Italia, in una lenta consunzione di uomini e 
	mezzi.
	
	Nel luglio del 1943, infatti, 
	gli angloamericani erano sbarcati in Sicilia, conquistando il primo lembo 
	d’Europa; altri sbarchi, ben più rilevanti, sarebbero seguiti, ma la Sicilia 
	fu, in un certo senso, una prova generale delle reali capacità difensive 
	della fortezza europea.
	
	Le truppe italiane opposero poco più di una resistenza simbolica, un po’ per 
	l’inverosimile sproporzione di mezzi, un po’ per la sensazione che, ormai, 
	tutto stesse andando a rotoli (il 25 luglio, il MCF avrebbe approvato 
	l’"Ordine del giorno Grandi", che esautorava Mussolini) e che la cosa 
	migliore fosse concludere le ostilità il più in fretta possibile.
	
	Ben diverso fu l’atteggiamento delle truppe germaniche, che, soprattutto 
	nell’interno dell’isola, impegnarono duramente le truppe alleate.
	
	Col 25 luglio e con l’arresto del Duce, si può dire che ebbe inizio quel 
	processo di scollamento e poi di aperto conflitto che avrebbe diviso il 
	Paese e causato la Guerra Civile italiana; l’atteggiamento del maresciallo 
	Badoglio, subentrato a Mussolini nella carica di capo del Governo, alimentò 
	le incertezze nei nostri soldati: da una parte, era evidente che Badoglio 
	mirava alla pace e, forse, ad un repentino cambio di schieramento, ma, 
	dall’altra, per tenere buono l’alleato germanico (che aveva mangiato da 
	tempo la foglia), egli aveva proclamato, già il 28 luglio, il proseguimento 
	della guerra al fianco della Germania.
	
	Si preparava l’immensa 
	tragedia dell’8 settembre, causa di tanti mali e di tanti drammi, i cui 
	strascichi, ancora oggi, a sessant’anni di distanza, limitano la libertà 
	politica e la serenità ideologica del nostro Paese; questa tragedia la 
	dobbiamo, per buona parte, al responsabile principale di un’altra immensa 
	tragedia, quella di Caporetto: il maresciallo Pietro Badoglio, massone 
	piemontese e figura sciagurata della storia d’Italia.
	
	L’estate del ’43 vide anche 
	il riprendere delle iniziative ad Est; nel luglio, i sovietici respinsero un 
	tentativo germanico a Kursk ed attaccarono con vigore a Viazma, riuscendo, 
	agli inizi d’agosto, a sfondare il fronte, riconquistare Kharkov e puntare 
	direttamente al Dniepr; mentre gli Alleati completavano l’occupazione della 
	Sicilia e Roma veniva dichiarata "città aperta"; intanto, i pozzi 
	petroliferi di Ploesti, fondamentali per il rifornimento della Germania, 
	venivano pesantemente bombardati, riducendo drasticamente la capacità di 
	movimento dei Tedeschi.
	
	In settembre, i Russi presero Smolensk (24 settembre), seguirono il Dniepr 
	fino a Kiev e conquistarono, infine, l’ex capitale il 6 novembre.
	
	Alla conferenza di Quebec 
	(11-24 agosto), gli Alleati avevano approvato i piani per lo sbarco in 
	Europa; da questo momento in poi, la Gran Bretagna avrebbe assistito ad un 
	accumulo di mezzi senza precedenti, fino al fatidico D-Day.
	
	L’autunno del 1943 vide un 
	susseguirsi di conferenze diplomatiche alleate: una volta compreso che la 
	guerra era vinta e che era soltanto questione di tempo, Inghilterra, Usa ed 
	Urss cominciavano a cercare di avvantaggiarsi nell’inevitabile spartizione; 
	in ottobre vi fu la Conferenza di Mosca, in novembre quella del Cairo e la 
	ben più importante Conferenza di Teheran cui presero parte i tre 
	plenipotenziari alleati: Stalin, Churchill e Roosevelt.
	
	Intanto, in seguito 
	all’armistizio dell’8 settembre, di cui ci occuperemo in un prossimo inserto, 
	Mussolini, dopo la sua liberazione dal Gran Sasso e il suo ricovero in 
	Germania, aveva costituito, nel nord del Paese, un governo repubblicano, 
	sostenuto dai Tedeschi, la Repubblica Sociale Italiana (23 settembre).
	
	La contromossa di Badoglio fu quella di dichiarare guerra all’ex alleato 
	germanico (13 ottobre), ribaltando completamente la posizione dell’Italia 
	monarchica rispetto all’inizio del conflitto.
	
	Mussolini, il 3 novembre, fece arrestare il genero, Galeazzo Ciano, che 
	avrebbe affrontato il processo di Verona e la fucilazione, insieme ad altri 
	gerarchi firmatari dell’OdG "Grandi"(12 gennaio 1944).
	
	La fine del 1943 trovò gli Alleati in piena offensiva, con i Russi che 
	avevano definitivamente riconquistato Korosten, più volte presa e perduta 
	dai contendenti, e con gli Americani che sbarcavano in Nuova Britannia e 
	risalivano lentamente la Penisola Italiana, arrestandosi di fronte alla 
	linea Gustav, che rappresentava il caposaldo invernale tedesco.
	
	Il 22 gennaio del 1944, gli Alleati sbarcarono ad Anzio, a sud di Roma, 
	cercando di superare il cul de sac rappresentato da Cassino, dove le loro 
	truppe si dissanguavano senza riuscire a passare; proprio mentre infuriava 
	la battaglia di Cassino, il comandante in capo tedesco in Italia, Kesselring, 
	scatenò un’offensiva contro la testa di ponte di Anzio (17-29 febbraio), che, 
	però, fallì.
	
	Sul fronte orientale, i Russi 
	stavano ormai avanzando in tutti i settori; il 14 gennaio iniziarono una 
	poderosa offensiva per liberare Leningrado dall’assedio, il 22 febbraio 
	l’Armata Rossa entrava a Krivoi-Rog, il 26 marzo i Russi raggiungevano il 
	Prut e la frontiera rumena.
	
	Questa campagna invernale logorò terribilmente le forze tedesche, che, ormai 
	vedevano assottigliarsi spaventosamente le proprie risorse, in particolare 
	di mezzi corazzati, aerei e carburante; ma anche il salasso umano era 
	terribile.
	
	Mentre gli Americani 
	bombardavano Budapest , ora sotto il diretto controllo dei Tedeschi e delle 
	Croci Frecciate, e Bucarest (aprile ’44), le truppe sovietiche conquistavano 
	Ternopol (5 aprile), Odessa (10 aprile) e, infine, Sebastopoli (9 maggio), 
	quando si concluse il ciclo operativo invernale.
	
	Da ogni parte del mondo, 
	stavano, intanto, affluendo truppe per attaccare la fortezza Europa: i 
	450.000 Francesi della neonata Armée, i Brasiliani, i Palestinesi, gli 
	Anzacs, i Polacchi, gli Indiani; si avvicinava il momento tanto temuto da 
	Hitler, quello dell’attacco al Vallo Atlantico.
	
	In realtà, il sistema difensivo della costa francese era tutt’altro che 
	insuperabile: soltanto nella zona del Pas de Calais la fascia costiera di 
	batterie a lunga gittata, di blockhaus e di trappole anticarro ed antinave 
	era efficiente; per il resto, le difese erano poco profonde e piuttosto 
	approssimative, data la scarsità di riserve (in pratica, due sole divisioni 
	panzer) e la precarietà degli apprestamenti fissi.
	
	Hitler, è notorio, non credeva all’eventualità di uno sbarco sulle coste 
	normanne, e nemmeno le comunicazioni del suo ufficio informazioni sui 
	preparativi alleati valsero a smuoverlo dall’idea che l’azione principale 
	sarebbe avvenuta sulle basse coste del nord.
	
	Preda delle sue allucinazioni, che si sarebbero acuite in seguito 
	all’attentato di Rastenburg del 20 luglio, il Fuehrer non si fidava dei 
	propri generali ed era sempre più spesso preda di un delirio strategico, in 
	cui spostava divisioni inesistenti e si affidava alle proprie divinazioni 
	astrologiche e al proprio intuito.
	
	Incredibilmente, perciò, i Tedeschi vennero presi alla sprovvista dallo 
	sbarco in Normandia, che, altrimenti, avrebbe potuto, per come sono poi 
	andate le cose, risolversi in un disastro per le pur strapotenti forze 
	alleate.
	
	Intanto, nell’immediata vigilia di Overlord, gli Americani progredivano nel 
	Pacifico, sbarcando in Nuova Guinea a Saidor (2 gennaio), nelle Marshall (31 
	gennaio), nelle Caroline (16 febbraio) e riconquistando Wake (15 maggio) e 
	Biak (27 maggio).
	
	In Italia, il 17 maggio cadde Cassino e, una settimana più tardi, la 5a 
	armata del generale Clark si ricongiunse con le truppe sbarcate ad Anzio: la 
	linea Gustav era caduta.
	
	E’ naturale, però, che il 1944 risulti dominato dall’evento chiave di tutta 
	la guerra, ossia lo sbarco in Normandia.
	
	All’alba del 6 giugno 1944, si presentò davanti alle coste francesi 
	un’armata d’invasione forte di 4.126 navi e di più di 15.000 aerei, che 
	trasportavano la 1a armata Usa e la 2a britannica: la superiorità aerea 
	alleata era dell’ordine di 50 a 1!
	
	Lo sbarco avvenne al mattino, con la bassa marea, per evidenziare gli 
	ostacoli antisbarco sommersi: anche questo prese in contropiede il 
	comandante delle forze di difesa tedesche, Rommel.
	
	Le spiagge su cui sbarcarono gli Americani (Utah e Omaha) e quelle di 
	competenza britannica e canadese (Gold, Juno e Sword), nella zona tra Caen e 
	il Cotentin, entrarono per sempre nella storia; il cinema, oltre che la 
	storiografia, ha contribuito ad alimentarne la leggenda ("Il giorno più 
	lungo", "Salvate il soldato Ryan"), cui, pertanto, non aggiungeremo altre 
	parole.
	
	L’8 giugno, gli Americani erano a Bayeux, il 12 a Carentan, il 26 si 
	arrendeva Cherbourg.
	
	Durante il mese di Luglio, le città normanne caddero una dopo l’altra, 
	mentre Rommel rimaneva gravemente ferito in un attacco aereo alla sua 
	vettura; Caen era caduta il 9 luglio, il 19 Saint-Lô, il 30 Avranches, che 
	avrebbe permesso uno sfondamento, che poi avvenne, in direzione della linea 
	Somme-Aisne-Marna.
	
	Nel frattempo, anche i Russi non erano rimasti con le mani in mano: le 
	valorosissime truppe finlandesi avevano alla fine dovuto abbandonare la 
	linea Mannerheim sotto gli attacchi dell’Armata Rossa (20 giugno); nel nord, 
	i sovietici avevano invaso la Bielorussia ed i Paesi Baltici, erano 
	penetrati in suolo polacco all’inizio di luglio e, nel breve volgere del 
	mese, si erano presentati in Prussia orientale, minacciando direttamente il 
	territorio del Reich.
	
	La guerra, ormai, si combatteva in Germania, con tutte le conseguenze, anche 
	psicologiche, che questo poteva comportare; incredibilmente, però, il popolo 
	tedesco, pur presagendo l’inevitabile disfatta, non manifestava segni di 
	cedimento nella sua fede per il Fuehrer, e, per la stragrande maggioranza, 
	avrebbe conservato questa fede incrollabile fino alla fine.
	
	Mentre l’offensiva in Polonia si arrestava e Varsavia insorgeva sotto la 
	guida del generale polacco Bor, la Romania, invasa per buona parte dalle 
	truppe sovietiche, si arrendeva; il re fece arrestare il dittatore Antonescu 
	ed i Tedeschi persero un altro alleato.
	
	Per quanto riguarda il nostro Paese, rinviando l’analisi della guerra civile 
	ad un prossimo inserto, insieme ad altri temi storici particolarmente 
	delicati della seconda guerra mondiale, come la Shoà, dobbiamo segnalare il 
	fatto che, il 15 luglio, il governo si era reinsediato a Roma , dando 
	l’impressione che, in almeno metà dell’Italia, ci si avviasse verso una 
	difficile normalizzazione; la strada della pace era, però, ancora lunga: 
	dopo la caduta di Livorno, di Firenze e di Pisa (19 luglio, 16 e 19 agosto), 
	i Tedeschi si organizzarono su una nuova linea difensiva invernale, la Linea 
	Gotica, che attraversava l’appennino tra Toscana ed Emilia-Romagna.
	
	Nel frattempo, erano affluite al fronte alcune aliquote di truppe italiane 
	repubblicane, addestrate e riorganizzate in Germania, mentre continuava a 
	combattere valorosamente la Xa flottiglia MAS del comandante Borghese, cui 
	affluivano in continuazione volontari, facendone lievitare gli effettivi in 
	maniera esorbitante.
	
	Anche l’estate del 1944 segnò, infine, una serie di progressi ulteriori 
	degli Americani e dei Britannici nel Pacifico: nelle Marianne, in Nuova 
	Guinea e in Birmania, i Giapponesi subirono duri rovesci e dovettero 
	abbandonare Guam, il 10 agosto.
	
	Dopo le difficoltà iniziali di Overlord, determinate, prevalentemente, dalla 
	scarsità di porti cui fare affluire l’enorme massa di materiali e mezzi per 
	rifornire le proprie armate, ora gli Alleati, proseguivano spediti in 
	territorio francese.
	
	Il 15 agosto vi era stato un notevole sbarco franco-americano in Provenza, 
	che aveva creato un secondo fronte, stavolta meridionale, per le truppe che 
	difendevano la Germania da occidente; il 19 dello stesso mese Parigi era 
	insorta e, il 25, vi erano entrate le truppe alleate, salutate da un 
	tripudio straordinario.
	
	Il fatto che, insieme agli angloamericani si trovassero gli Sherman di 
	Leclerc era costato quasi un incidente diplomatico tra Eisenhower e 
	l’arcigno generale De Gaulle, che, lungo tutta la guerra, aveva cercato di 
	imporsi come unico interlocutore francese degli Alleati, riuscendovi in 
	virtù più della sua arroganza che di una sua reale rappresentatività del 
	popolo francese: erano i primi segnali di come De Gaulle avrebbe 
	interpretato il concetto di Grandeur, una volta capo della Francia.
	
	Per farla breve, comunque, entro il mese di settembre, tutta la Francia e 
	buona parte del Belgio erano stati occupati dagli angloamericani, le cui 
	forze, provenienti dalla Normandia e dalla Provenza, si erano riunite, come 
	le ganasce di un’immensa tenaglia, a Châtillon-sur-Seine, il 12 settembre.
	
	Le truppe tedesche, però, guidate da Model, che aveva sostituito Kluge, 
	suicidatosi dopo l’attentato del 20 luglio, si erano per buona parte 
	sottratte alla trappola; si trattava, tuttavia, di un esercito sconfitto, 
	deluso e praticamente disarmato, pallido fantasma di quello che aveva 
	percorso, in senso inverso, le stesse strade nel 1940.
	
	In quello stesso settembre del 1944, la Bulgaria cadeva e chiedeva 
	l’armistizio ai sovietici, dichiarando guerra alla Germania (7-11 settembre), 
	mentre le truppe russe e quelle jugoslave del maresciallo Tito si 
	congiungevano a Negotin, il 15: il cerchio continuava a chiudersi sul Reich.
	
	Ai primi di ottobre, gli Americani forzarono la linea Sigfrido, ad 
	Aquisgrana, l’Ungheria venne invasa dai sovietici, mentre il generale Bor, a 
	Varsavia si dovette arrendere ai Tedeschi; il 20 ottobre Tito entrò a 
	Belgrado: il 13 dicembre Tito annunciò che la futura repubblica jugoslava 
	sarebbe stata una federazione di sei stati; uno di questi stati comprendeva 
	l’Istria e buona parte della Venezia Giulia, da cui già da tempo si stavano 
	eliminando gli elementi nazionali italiani: si stava delineando il dramma 
	delle foibe, il cui primo atto si era visto dopo l’8 settembre; anche di 
	questo parleremo diffusamente nell’inserto sui temi scottanti della seconda 
	guerra mondiale.
	
	La fine del mese vide anche una pesante sconfitta aeronavale giapponese nel 
	pacifico, con la battaglia di Leyte, in cui comparvero per la prima volta in 
	numero rilevante gli aerei suicidi, i Kamikaze; quanto a Leyte, l’accanita 
	resistenza giapponese cessò del tutto a dicembre; in pratica, gli unici 
	settori in cui le truppe del Tenno non fossero in aperta crisi restavano la 
	Cina e l’Indocina, dove le loro offensive raggiunsero buoni risultati, sia 
	contro Ciang Kai-Scek che contro gli Americani, per il resto, la superiorità 
	aeronavale degli Usa era troppo marcata per lasciare spazio a qualche 
	speranza.
	
	La guerra, di fatto, avrebbe potuto finire qui, almeno per quanto riguarda 
	il fronte occidentale: ben presto, le avanguardie di Patton avrebbero, 
	incredibilmente, trovato un ponte intatto sul Reno, a Remagen (6 marzo 1945) 
	, e di lì la porta era praticamente spalancata fino a Berlino, giacchè non 
	esistevano tra il Reno e la capitale forze consistenti, fatte salve le 
	divisioni corazzate di Rundstedt, celate nella foresta delle Ardenne, ma 
	quelle sarebbero dovute servire a tutt’altro.
	
	A questo si opposero due eventi: il primo fu la scelta, tutta politica, 
	degli Americani di lasciare ai Sovietici l’onore della conquista della 
	capitale del Reich, ennesima prova del fascino incomprensibile che Stalin 
	esercitava su Roosevelt.
	
	Il secondo dipese esclusivamente dai Tedeschi e dalla loro disperata volontà 
	di non arrendersi.
---------------------------
 
  
	
	Il 16 dicembre, infatti, con scorte di carburante decisamente irrisorie e 
	confidando in un fattore aleatorio come il cattivo tempo che costringesse a 
	terra gli aerei alleati, i carri Tiger germanici sbucarono all’improvviso 
	nelle linee americane, seminando lo scompiglio: era la battaglia delle 
	Ardenne, l’ultimo grande sforzo offensivo di Hitler.
	
	In verità, nei piani del Fuehrer questo doveva essere un secondo attacco 
	alla Francia, con esiti disastrosi e, forse, definitivi per le truppe 
	sbarcate in Normandia, che dovevano essere tagliate fuori; ma, nella realtà, 
	l’offensiva delle Ardenne avrebbe, al massimo, potuto scompigliare il fianco 
	settentrionale delle armate Usa: di fatto, i carri tedeschi si ingolfarono 
	intorno alla piazzaforte di Bastogne, senza neppure superare la Mosa.
	
	Il 28 dicembre, gli Americani liberarono Bastogne dall’assedio e a metà di 
	gennaio 1945 l’offensiva era stata del tutto rintuzzata, con la distruzione 
	dei reparti corazzati nazisti.
	
	Bisogna dire che le truppe germaniche a sud di Strasburgo se la stavano 
	cavando meglio, tuttavia, in pratica, a febbraio, gli alleati costeggiavano 
	il Reno per quasi tutto il suo percorso, fino alla conquista di Colonia e, 
	come già detto, di Remagen, ai primi di marzo.
	
	Naturalmente, in tutto questo periodo, non era passato un solo giorno senza 
	che massicce formazioni di bombardieri avessero scaricato migliaia di 
	tonnellate di bombe sul Reich: le città tedesche, ormai, sembravano città 
	lunari, con scheletri di case smozzicate che sorgevano in un mare di macerie.
	
	Tra tutte, citiamo Dresda, che, pur non rappresentando un bersaglio 
	strategico, ed essendo stata, per questo motivo, fino ad allora risparmiata 
	(le fabbriche di strumenti ottici si trovavano fuori del perimetro urbano, 
	ed erano già state colpite), venne attaccata a più riprese, tra il 13 ed il 
	14 marzo.
	
	Nella città si trovavano almeno 500.000 profughi, provenienti dalla Slesia e 
	fuggiti di fronte alla ferocia sovietica; su di loro e sugli abitanti 
	dell’antica capitale sassone, alle 22 del 13 marzo cominciano a piovere 
	bombe da due tonnellate, destinate soprattutto ad infrangere i vetri su di 
	un vasto raggio, per facilitare il propagarsi degli incendi.
	
	Tre ondate di bombardieri Lancaster e B17 (più di 1.100 in tutto) 
	sganciarono sulla città 650.000 bombe incendiarie, trasformando Dresda in un 
	ciclone di fuoco che si autoalimentava per la depressione barometrica; 
	nessuno scampo per gli abitanti, soffocati nei rifugi o arsi per strada, 
	nessuna possibilità di soccorso, perché i cacciabombardieri americani 
	mitragliavano senza pietà i carri dei pompieri che provenivano dalle città 
	vicine: Dresda fu un episodio di una ferocia inaudita in una guerra che era 
	stata inauditamente feroce, e causò circa 150.000 vittime, cioè più di 
	qualunque altro bombardamento della guerra, compreso quello di Hiroshima!
	
	Perfino il parlamento britannico insorse per questo atto di barbarie; ma 
	nessuno ebbe il coraggio di dire che il bombardamento era stato 
	espressamente chiesto dai sovietici, per scompigliare le retrovie del fronte 
	orientale.
	
	Il quale fronte, ormai, stava a sua volta crollando: il 13 febbraio Budapest 
	si arrendeva, ai primi di marzo l’Armata Rossa entrò in Austria e nella 
	Germania orientale, nello stesso momento cadeva la Pomerania; un poco alla 
	volta, le forze sovietiche stringevano Berlino, cui Eisenhower aveva 
	ufficialmente rinunciato, in una morsa.
	
	Da questo momento in poi, ogni giorno segnò uno sviluppo deciso verso la 
	fine del Reich: vediamo di riassumere gli avvenimenti in modo sintetico.
	
	Il 10 aprile cadde Königsberg, il 12, il giorno della morte del presidente 
	americano Roosevelt, cui succedette Truman, i Russi entrarono a Vienna, il 
	16 iniziò l’offensiva congiunta di Zukov e di Konev contro Berlino, il 17 si 
	arresero le truppe della Ruhr, il 19 gli Alleati, in Italia, forzarono la 
	linea gotica e presero Bologna, il 27 veniva assassinato Mussolini, il 29 i 
	Francesi che avevano attaccato da nord e gli Alleati si congiunsero, a 
	Torino, il 30 aprile Hitler si suicidava nel bunker della cancelleria, 
	insieme alla moglie, Eva e, il 7 maggio, a Reims, le truppe tedesche si 
	arresero senza condizioni.
	
	La guerra in Europa si concludeva, con il suo strascico di drammi e di 
	polemiche: alla fine, gli Americani avevano commesso l’errore di assecondare 
	troppo Stalin, e questo si sarebbe ritorto contro di loro.
	
	Le conferenze di Yalta (4-12 febbraio) e di Potsdam (17 luglio), in pratica, 
	sancirono la divisione del mondo in due, consegnando una parte dell’Europa 
	all’incubo comunista.
	
	Churchill, sconfitto dal laburista Attlee alle elezioni di luglio 1945, 
	riferendosi al suo sedicente alleato sovietico, commentò amaramente: "Abbiamo 
	ammazzato il porco sbagliato!", il che la dice lunga sulla sua opinione 
	riguardo al tiranno russo.
	
	Intanto, anche la sorte del Giappone si stava compiendo.
	
	In gennaio, MacArthur era sbarcato a Luzon, il 17 febbraio Mac era tornato, 
	come aveva promesso nel 1942, a Corregidor e il 25 era entrato a Manila; 
	anche le città nipponiche subirono, a partire dal marzo 1945, pesanti 
	incursioni aeree, favorite dalla quasi completa distruzione dell’aviazione 
	del Sol Levante: Tokio, Osaka, Yokohama, Nagoia e Kabè pagarono un duro 
	prezzo; tra le città risparmiate, Hiroshima e Nagasaki avevano un 
	appuntamento con il destino.
	
	Il 16 marzo, cadde Iwo Jima e il 1 aprile gli Americani sbarcarono a 
	Okinawa: la guerra ora minacciava direttamente l’arcipelago giapponese.
	
	Mentre, una ad una, le isole del Pacifico cadevano, da Bougainville al 
	Borneo, gli scienziati americani stavano ultimando i test per la prima 
	esplosione atomica della storia: questa si realizzò ad Alamogordo, nel 
	deserto del New Mexico, il 16 luglio del 1945, segnando l’inizio dell’era 
	nucleare.
	
	Il 6 ed il 9 agosto, due fratellini della bomba di Alamogordo, Little Boy e 
	Fat Man, consegnavano Hiroshima e Nagasaki alla storia ed i loro abitanti 
	all’olocausto atomico; il 15 agosto, l’imperatore ordinava di cessare ogni 
	ostilità.
	
	Il 2 settembre, , alla fonda nella rada di Tokio, con la capitolazione 
	giapponese sul ponte della corazzata Missouri, finiva la seconda guerra 
	mondiale.
	
	Le vittime sono state calcolate in circa 40.000.000, anche se il loro vero 
	numero non sarà mai calcolato.
	
	Certamente incalcolabile è la mostruosa rovina, fisica e morale, che questo 
	conflitto ha procurato all'umanità, e all'Europa, in particolare.