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LA SECONDA GUERRA MONDIALE.

                         LA MAREA dell'odio 1939-1940



Il potenziale militare tedesco nel 1939.

Hitler si era meticolosamente preparato all’eventualità della guerra, anche se andava dicendo ai suoi più stretti collaboratori, compreso il Duce, che non sarebbe stato pronto militarmente (ed era vero) prima del 1942-43.

Quello che però avrebbe potuto fare, nel breve tempo a sua disposizione, l’aveva fatto: la Luftwaffe, l’arma aerea che per molto tempo era vissuta in clandestinità, sotto le mentite spoglie degli aeroclub privati, si stava dotando di una flotta di tutto rispetto, collaudata nella guerra civile spagnola (la Legione Kondor).

Le scelte strategiche dell’aviazione militare, col tempo, però, si rivelarono errate: si puntò sull’utilizzo massiccio di bombardieri in picchiata (lo Ju 87, più celebre come ‘Stuka’) e di aeroplani da bombardamento medio-leggeri, come gli Ju 88, i Do 17 o gli Heinkel 111; questa scelta, votata all’attacco al suolo di truppe e mezzi corazzati, se potè rivelarsi molto valida contro nemici aeronauticamente insignificanti, come i Repubblicani spagnoli o i Polacchi, con un avversario duro ed organizzato come la Gran Bretagna, contro cui si trattava di bombardare intere città, si dimostrò perdente.

La Wehrmacht era ritornata ad essere un esercito efficiente, in cui, ai vecchi generali di scuola "Potsdam" si erano affiancati giovani e brillanti generali cresciuti nel culto della mobilità e delle armi nuove, come Guderian, Manstein o i loro capi, Kleist e Rundstedt.

La Kriegsmarine aveva una flotta sottomarina seconda per cifre solo a quella italiana, ma certamente superiore per qualità dei mezzi, mentre si stava potenziando la flotta di superficie con nuove unità da battaglia (Bismarck e Tirpitz), potenti e moderni incrociatori, come il Prinz Eugen e corazzate "tascabili", come la Graf Von Spee, potentemente armate, ma di tonnellaggio limitato per sfuggire alle clausole internazionali.

Inoltre, Hitler poteva contare su delle truppe combattenti d’élite, le Waffen SS, bene armate, bene addestrate e di una fedeltà a tutta prova.

E’ opportuno ricordare che queste Waffen SS non devono essere confuse con le SS tradizionali, che avevano compiti di polizia politica e segreta e, in seguito, di sterminio degli Ebrei e di gestione dell’Olocausto nei campi di sterminio: le WSS erano reparti combattenti, certo fortemente fanatizzati e politicizzati, ma il cui impegno fu quasi costantemente militare.

All’inizio della campagna di Russia, tuttavia, l’RSHA, l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich, in cui convergevano le forze di polizia di Stato (Kripo, Gestapo) e quelle di partito (SD), che, in pratica, era nelle mani del vice di Himmler, Heidrich, organizzò il massacro sul posto degli abitanti ebrei delle zone occupate, contestualmente all’avanzata dell’esercito: nel corso di questo genocidio itinerante (500.000 vittime nei primi sei mesi), nei quattro gruppi che seguivano a brevissima distanza le truppe d’avanguardia e che sterminavano ebrei e partigiani russi (Einsatzgruppen), vi era una consistente aliquota di WSS, e, spesso, essi potevano contare sull’appoggio logistico della Wehrmacht.

Giova aggiungere che la Wehrmacht non aveva, solitamente, rapporti particolarmente felici con le SS, che avevano,tra l’altro, propri gradi, diversi da quelli tradizionali (esattamente come la MVSN fascista); anzi, spesso, come vedremo nei prossimi inserti, proprio tra gli alti ufficiali dell’Oberkommando Wehrmacht (OKW, d’ora in poi)maturarono numerosi i complotti antinazisti.

In realtà, è molto difficile stabilire le responsabilità generali di WSS ed esercito nell’effettuazione, se non nell’organizzazione, dell’Olocausto; per lo più è pratica storicamente corretta esaminare, laddove sia possibile, i singoli casi e le relative responsabilità.

Per esempio, un Einsatzkommando, nel luglio 1941, definiva l’esercito "gradevolmente ben disposto contro gli Ebrei" (Erfreulich gute Einstellung gegen die Juden).

Si devono, inoltre, distinguere i Pogrom non di matrice tedesca, come quello, terribile, del 28 ottobre 1941, che operarono i Romeni a Odessa.

Ma di tutto questo parleremo nel dettaglio in un prossimo inserto.

Tornando ai preparativi per la guerra, se non era pronto al 100%, nel 1939, Hitler poteva contare su di un esercito di tutto rispetto, almeno per una guerra circoscritta nel tempo e nello spazio; esattamente a questo pensavano all’OKW, quando si cominciò a parlare di Blitzkrieg, di ‘guerra lampo’: d’altra parte, non erano state fulminee le vittorie politiche del Nazismo?

L’occupazione incruenta dell’Austria e della Cecoslovacchia contribuì certamente ad accrescere l’ottimismo di Hitler e la fiducia nei propri mezzi; bisogna dire, però, che dall’altra parte della barricata si stava colpevolmente sottovalutando il caporale di Braunau.



Gli Alleati nel 1939.

Negli anni ’20, un generale francese del Genio reduce da Verdun, André Maginot, sottopose al governo un progetto difensivo della frontiera orientale della Francia, che tenesse conto dell’esperienza fatta nella terribile battaglia d’arresto del 1916: un sistema flessibile di forti, blockhaus, opere di scavo ed apprestamenti sotterranei, in grado di resistere ad urti massicci di truppe e a bombardamenti pesanti e pesantissimi.

Nacque così la "Linea Maginot", che, anche se il suo ideatore non fece in tempo a vederne il collaudo, si rivelò uno dei più clamorosi buchi nell’acqua nella storia delle opere campali, dato che i comandanti francesi guardarono a lei con una fiducia cieca, abbandonando qualsiasi altra considerazione (a parte un giovane generale di divisione di larghe vedute, che farneticava di carri armati e di guerra manovrata: Charles De Gaulle): solo l’opinione pubblica francese riuscì a fare peggio dei suoi strateghi, giudicando, con icasticità tutta transalpina, la Linea assolutamente invalicabile, nientemeno!

Il problema, come vedremo, fu che, se i generali educati a Saint-Cyr erano ipnotizzati dalla loro idea fissa della "Maginot", i Tedeschi non lo erano affatto, e, con praticità teutonica, decisero che se la linea difensiva francese era davvero insuperabile, la cosa migliore era quella di girarle attorno; il che, puntualmente, fecero.

Poco meglio erano messi gli Inglesi, che, rallentati nel momento cruciale dalle manie di appeasement di Chamberlain, erano ancora in alto mare, mentre Hitler invadeva la Boemia e Mussolini si prendeva l’Albania (7 aprile 1939): l’Home Fleet era ancora la marina militare più potente del mondo, ma l’esercito era poco numeroso e male comandato e l’aviazione aveva da poco varato una massiccia operazione di rafforzamento, con l’introduzione in linea di nuovi modelli di caccia e di bombardieri.

Tuttavia, gli Inglesi, almeno sul versante difensivo, avevano un enorme vantaggio rispetto agli alleati francesi: tra loro ed il Vecchio Continente c’era di mezzo il mare e possedevano il Radar, che si sarebbe rivelato cruciale quando, nell’estate del 1940, durante la Battaglia d’Inghilterra, non c’erano abbastanza aerei per essere dappertutto e, perciò, bisognava conoscere quantità ed esatta direzione delle formazioni nemiche.

Anche nel Regno Unito c’era chi, come Winston Churchill, si sgolava sulle nuove armi e le nuove strategie ad esse legate, ma non gli si dava troppo credito.

Certamente, se pensiamo al colossale granchio mussoliniano sulla necessità o meno di costruire portaerei in Italia; o alla scelta di puntare sui biplani per i caccia e sui trimotori per i bombardieri fatta dall’aviazione italiana, o, infinitamente peggio, al costume folle dell’industria aeronautica italiana di costruire modelli di velivoli simili ma non compatibili tra loro in termini di ricambi, ci rendiamo conto del fatto che, a posteriori, è facilissimo valutare le esigenze belliche di un paese, ma che, viceversa, prevederle sia cosa difficile assai.

Per concludere, comunque, possiamo dire che il potenziale militare degli Alleati era, nel 1939, quantitativamente pari o superiore a quello tedesco, ma che gli era, invece, di molto inferiore in termini qualitativi e, soprattutto, strategici, ancorato com’era ad un’idea di difesa fissa che, come vedremo, permetterà a Hitler di mettere in atto con tutto comodo il suo piano d’attacco.



Hitler e Stalin.

Un dittatore ben difficilmente si fida di un collega: sa perfettamente che l’autocrazia si fonda sulla paura, sull’inganno e sul camaleontismo.

Hitler e Stalin non sfuggirono a questa regola: i due non si fidavano l’uno dell’altro, ma si capirono benissimo quando si trattò di fare a metà di una razzia.

Oggi, la storiografia corretta, glissa con imbarazzo quando si pone la domanda fatidica: "Chi ha fatto scoppiare la seconda guerra mondiale?".

Siamo certi che, se la stessa questione si ponesse, alla vigilia degli esami di Stato, in una qualsiasi classe quinta di una qualsiasi scuola superiore italiana, posto che l’insegnante, alla fine dell’anno, fosse arrivato fin qui, il che è da dimostrare, la risposta all’unisono sarebbe: "Hitler!".

Ahimè, sarebbe bello e comodo se le cose fossero andate così: quante acrobazie retoriche di meno ci sarebbero, a questo punto, sui manuali di storia!

Stalin costretto ad accordarsi con Hitler perché non pronto alla guerra contro il male; Stalin che sperava di vedere riconosciuto il legittimo possesso dell’Urss sulle repubbliche baltiche; Stalin tirato per i baffi e per i capelli ad accettare l’alleanza nazista dalla sfiducia delle democrazie occidentali….

Vogliamo dire com’è andata?

Due immensi delinquenti, ragionando da delinquenti, si sono spartiti cinicamente dei territori la cui unica colpa era quella di trovarsi vasi di coccio a viaggiare con vasi di ferro; e lo hanno fatto, al di là di ogni altra considerazione, perché l’essenza del loro potere era la stessa.

Così, sarà bene ricordare una volta per tutte che la seconda guerra mondiale l’hanno dichiarata e fatta, concordemente, i nazisti tedeschi ed i comunisti sovietici: mentre Hitler occupava la Polonia da ovest, Stalin invadeva la Polonia da est, e con lei Estonia, Lettonia e Lituania, considerate costole della madre Russia.

Dunque, se la diplomazia occidentale, isolandolo, aveva gettato Mussolini nelle braccia di Hitler, fino alla firma del "Patto d’Acciaio"(22 maggio 1939), che trasformava le dichiarazioni d’amicizia dell’Asse Roma-Berlino in una vera alleanza militare, lo stesso aveva fatto con Stalin, di cui (anche questo è bene lo si sappia) nessuno, ad ovest della Berezina, si fidava.

Così, il 23 agosto 1939, in virtù di uno di quei miracoli che solo nelle rarefatte sfere della diplomazia avvengono, i fucilatori di Barcellona ed i bombardatori di Guernica si strinsero la mano (con quale entusiasmo degli antifascisti, che avevano salutato in Stalin la diga contro l’espansione nazifascista nel mondo, è facile immaginare); e siglarono un patto di non aggressione che si chiamò patto Ribbentrop-Molotov, dal nome dei due ministri degli esteri che, materialmente, lo stipularono (non vi state sognando nulla: è proprio lo stesso Joachim von Ribbentrop impiccato a Norimberga!).

In un protocollo che, per ovvi motivi, venne tenuto segreto, la Germania dava il suo benestare all’occupazione sovietica di qualche sparuto paesetto orientale, come, appunto, le repubbliche baltiche, la Finlandia, la Bessarabia romena e, naturalmente, una bella fetta di Polonia.



Il Giappone.

La crisi economica del ’29, che aveva messo in ginocchio l’economia di mezzo mondo, non aveva certo risparmiato il Giappone, che, proprio in quegli anni stava espandendosi commercialmente in Asia.

Naturalmente, le conseguenza della grande crisi pesarono moltissimo su di un Paese a forte vocazione industriale, ma del tutto dipendente dall’esterno per l’approvvigionamento di materie prime e, perciò, dai commerci esteri.

Vedendo crollare il mercato dell’esportazione dei propri prodotti lavorati, il Giappone si trovò nella necessità di riprendere a praticare quella politica imperialista, che già era stata sua ai tempi della guerra russo-giapponese del 1904, iniziando a conquistare territori sul continente asiatico.

Questo, tra l’altro, nella logica del Mikado, avrebbe risolto sia i problemi legati a materie prime e ad esportazione, che quelli connessi con l’esplosione demografica.

Perciò, l’esercito giapponese passò all’offensiva proprio da dove si era fermato, cioè dalla Manciuria.

Dalla fine della guerra contro la Russia, i Giapponesi occupavano stabilmente la parte meridionale della Manciuria; non fu per loro difficile trovare un pretesto per finire l’opera e, infatti, nel settembre del 1931, le truppe del Sol Levante invasero i territori cinesi, proclamando, cinque mesi dopo, il libero stato del Manciukuò, che, in realtà, era solo un satellite nipponico.

Nel 1933, col pretesto della condanna da parte della Società delle Nazioni per il suo attacco in Manciuria, il Giappone uscì dalla SDN.

Fu, tuttavia, a partire dal 1936, anno fatale, che i Nipponici iniziarono a fare sul serio, dopo un colpo di stato militare, che trasformò il Mikado in una sorta di dittatura, salvo restando il ruolo semidivino dell’imperatore; tra il 1936 ed il 1941, il Giappone operò uno sforzo possente, dotandosi di forze armate addestratissime e di mezzi aeronavali di prim’ordine, che sarebbero dovuti servire alla conquista dei territori asiatici.

In Asia, però, c’erano già degli imperialisti che sfruttavano le materie prime: gli europei.

Dovendo pestare i calli all’Europa, il Giappone si trovò nella necessità di farsi anche qualche alleato in Occidente, e la sua scelta cadde sui paesi politicamente più affini ed economicamente con meno interessi in Estremo Oriente, ossia la Germania e, per conseguenza, l’Italia; ben presto, si giunse alla firma del "patto anticomintern", tra Giappone e Germania (novembre 1936).

Otto mesi dopo, nel luglio del 1937, il Giappone attaccò di sorpresa la Cina, senza nemmeno scomodarsi a dichiarare la guerra e, in breve, ne occupò le regioni più importanti.

In concomitanza con l’invasione giapponese, i nazionalisti ed i comunisti cinesi, che stavano combattendo una guerra civile tra loro, si misero d’accordo e formarono un "fronte nazionale", in chiave antinipponica, riservandosi di riprendere a scannarsi a guerra finita (come, infatti, accadde), ed iniziarono una guerriglia contro i Giapponesi che durò, senza soluzione di continuità, fino alla fine della seconda guerra mondiale.

Occupata la Cina, di fronte al Giappone si aprivano le ricche colonie inglesi e olandesi, nonché l’intero oceano Pacifico, che era, però, nella sfera d’interessi degli Usa: si trattava di scegliere tra l’accontentarsi e l’affrontare una guerra.

Ma, come si sa, l’appetito vien mangiando…..



La marea ad Oriente.

L’1 settembre del 1939, alle prime luci dell’alba, le colonne motorizzate tedesche invadevano la Polonia, dietro il pretesto di restituire alla madrepatria l’unico sbocco polacco al mare, il cosiddetto "corridoio di Danzica", che divideva la Prussia occidentale da quella orientale.

In realtà, era solo il primo atto del più pauroso conflitto che la storia ricordi: la seconda guerra mondiale.

Questa volta, la reazione diplomatica di Francia ed Inghilterra non si fece attendere, ed entrambe, il 3 settembre, dichiararono guerra alla Germania; quarantotto ore dopo, USA e Giappone si proclamarono neutrali, mentre l’Italia coniò, per definire il proprio atteggiamento, il termine "non belligeranza".

In due settimane, in pratica, la guerra in Polonia era finita, anche se si sarebbero dovuti aspettare i primi di ottobre per la resa definitiva dell’esercito polacco: la Blitzkrieg concepita dall’OKW si era mostrata efficace oltre le più rosee previsioni.

Il 17 settembre, intanto, l’Armata Rossa aveva invaso la Polonia orientale, a scopo precauzionale; ossia per assicurarsi il rispetto tedesco delle clausole segrete del patto Ribbentrop-Molotov.

Iniziava per la Polonia un terribile quinquennio di occupazione nazista; fin dall’inizio, Tedeschi e Sovietici si diedero da fare per sterminare la classe dirigente polacca, gli ufficiali dell’esercito, gli intellettuali o anche solo chi sapeva leggere e scrivere.

Intanto si venivano radunando gli ebrei di Polonia, in vista della Endlösung der Judenfrage, la soluzione finale del problema ebraico: nemmeno un anno dopo, sarebbe stato aperto, proprio in Polonia, il campo di sterminio di Auschwitz.

Dopo il crollo della Polonia, però, il cannone ad Est non tacque a lungo: il 30 novembre del 1939, in un clima polare, l’Urss attaccò la Finlandia, con il pretesto di alcune concessioni territoriali di frontiera.

I Finnici si batterono bene (e si sarebbero battuti bene anche in seguito, da alleati dei Tedeschi, sul fronte di Karelia e a Leningrado) e solo tre mesi dopo, il 12 marzo 1940, si arresero e cedettero ai Sovietici i territori fonte di contesa, conservando, tuttavia, la propria indipendenza.

Diversamente andò alle repubbliche baltiche, occupate dall’Armata Rossa nella primavera del 1940.

Mentre Francia ed Inghilterra, sul fronte occidentale, giocavano alle belle statuine, Hitler, il 9 aprile del ’40, attaccò di sorpresa la Danimarca (che ebbe, per tutta l’occupazione, uno status privilegiato) e la Norvegia (che faceva gola, per via delle sue miniere di ferro, anche agli Inglesi, che, però si mossero tardi), conquistandole in un paio di mesi.



La marea ad Occidente.

Attaccando la Polonia con praticamente tutte le forze a sua disposizione, Hitler aveva rischiato grosso: solo poche divisioni erano rimaste a presidiare la linea Siegfried, che fronteggiava la francese Maginot, come Davide con Golia.

Godendo di una superiorità schiacciante, gli Alleati avrebbero potuto facilmente sfondare il velo difensivo tedesco e puntare, indisturbati, sulla Saar e sulla Ruhr, che erano il cuore industriale della Germania: le forze contrapposte erano dell’ordine di venti a uno in loro favore, durante i giorni cruciali dell’attacco ad oriente.

Il Fuehrer lo sapeva benissimo, e pregò che il suo bluff non venisse chiamato: un poco alla volta, sottrasse truppe all’ormai risolta campagna di Polonia e le avviò al Reno.

Intanto, gli Alleati non si decidevano ad intervenire e, benchè la guerra fosse stata dichiarata a tutti gli effetti, per mesi, sul fronte occidentale non si sparò che qualche colpo di fucile, tra le due linee contrapposte: era la drôle de guerre, la guerra matta, in cui l’Europa rimase col fiato sospeso per ben otto mesi, che, nelle speranze degli Alleati, avrebbero dovuto piegare l’economia tedesca, con il blocco navale che la Home Fleet aveva attuato.

Sulle indecisioni degli anglo-francesi, pesava certamente il ricordo degli spaventosi massacri di venticinque anni prima; essi non volevano ripetere l’esperienza della guerra di trincea, e, aspettando a piè fermo, al riparo delle casematte della linea Maginot o dietro la linea dei forti belgi, l’attacco tedesco, diedero ad Hitler un vantaggio decisivo.

Quando l’armata tedesca fu pronta e le condizioni meteo furono considerate soddisfacenti, il 10 maggio del 1940, un’imponente massa di aerei e di mezzi corazzati travolse tutto davanti a sé, dando un’ennesima, terribile, dimostrazione dell’efficacia della tattica della guerra lampo.

In un mese soltanto, gli eserciti di due tra le più temute potenze del mondo furono sbaragliati: mentre i Francesi oliavano i loro poderosi cannoni, nelle torrette corazzate della linea Maginot, i Tedeschi lanciavano paracadutisti sui forti belgi, superavano i canali olandesi con i gommoni; soprattutto, facevano passare le loro Panzerdivisionen attraverso le Ardenne, che i Francesi avevano, col loro solito acume, definito "inattraversabili" da parte di grosse formazioni corazzate.

Questa volta, il "piano Schlieffen" aveva funzionato: le branche della tenaglia si erano chiuse sul nemico, grazie alla maggiore velocità delle truppe corazzate di Hitler rispetto alla fanteria del 1914; naturalmente, facendo onore alla sua fama di gentiluomo, il Fuehrer si era guardato bene dal dichiarare ufficialmente guerra a Belgio ed Olanda: i tempi della cavalleria erano definitivamente tramontati, e si entrava in quelli della guerra totale.

A questo punto, Mussolini, che aveva scorte per soli tre mesi di guerra ed aveva a lungo tergiversato con il collega tedesco circa il rispetto del patto d’acciaio, ritenne che valesse la pena di correre il rischio, dato l’imminente collasso del sistema difensivo francese; così, il 10 giugno del 1940, dal balcone di palazzo Venezia, il Duce annunciò all’Italia che eravamo in stato di guerra con la Francia e la Gran Bretagna.

Al canto di "E la Francia l’è una gran troia: Nizza e Savoia ci renderà…", il 21 giugno del 1940, le truppe italiane ebbero il loro battesimo del fuoco sul fronte occidentale; l’armistizio fu chiesto dai Francesi tre giorni più tardi (si erano già arresi ai Tedeschi il giorno 22).

Le nostre truppe, mal condotte e poco attrezzate, erano avanzate di pochissimi chilometri in territorio francese; e questo primo, modesto scacco, subito da una nazione ormai alla canna del gas, avrebbe dovuto fare riflettere i capi dell’esercito sulla improponibilità di una nostra partecipazione da protagonisti ad un conflitto in cui l’apparato produttivo aveva un’importanza decisiva.

Viceversa, l’Italia si gettò a capofitto in un’impresa che avrebbe, come profetizzava il ministro degli esteri Ciano, compromesso il Paese ed il Regime.

La Francia, nel frattempo, si era arresa, come abbiamo detto, ai Tedeschi: il doloroso compito di trattare la resa fu affidato ad un vecchio soldato, l’eroe di Verdun, colui che aveva firmato il celeberrimo bollettino di guerra intitolato On les aura, che era una sorta di simbolo del valore francese: il maresciallo Pètain, che fu nominato plenipotenziario dal Parlamento francese(17 giugno 1940).

Il 22 giugno, nello stesso villaggio di Rethondes in cui era stata firmata la resa della Germania nel 1918 e sullo stesso vagone, di proprietà del M.llo Foch, su cui gli ufficiali del Kaiser avevano chiesto l’armistizio, i Francesi si arresero alla Germania di Hitler.

Il Fuehrer era al settimo cielo: la pugnalata alle spalle era stata vendicata; i fantasmi di Verdun, della Somme, di Paschendaele, determinavano ancora i destini d’Europa.

La Francia fu divisa in due parti: Nord e Atlantico occupati militarmente dai Tedeschi; e Sud, con capitale Vichy, governati da un regime collaborazionista, presieduto da Pétain con primo ministro Laval.

Esisteva, per la verità, una terza Francia, ancorchè solo virtuale: la "Francia libera", proclamata dal generale De Gaulle dal suo rifugio londinese e composta dai reduci francesi che erano riusciti a raggiungere la Gran Bretagna: dai microfoni della BBC, De Gaulle esortava i Francesi a resistere contro l’occupazione tedesca, creando quella che sarebbe diventata la resistenza francese, il Maquis.

Rimane da esaminare un ultimo capitolo della campagna occidentale del 1940, quello, forse, più enigmatico: Dunkerque.

Verso la fine di maggio, l’esercito britannico, senza più armi pesanti, senza carri e senza copertura aerea, si trovava circondato nella sacca di Dunkerque: sarebbe bastato poco, per le armate tedesche, per schiacciare tutto quello che rimaneva all’Inghilterra in termini di soldati.

Invece, inspiegabilmente, le truppe del Terzo Reich ebbero l’ordine di fermarsi ed aspettare.

Le ragioni di questo errore tattico, che avrebbe avuto conseguenze alla lunga decisive sull’esito della guerra, possono essere diverse.

Forse, Hitler temeva (anche se è poco probabile) qualche trucco degli Inglesi; o, forse, pensava che, mostrando una specie di clemenza verso i Britannici, questi avrebbero accettato di buon grado una resa a condizione, in cui Germania e Regno Unito si sarebbero spartiti il pianeta: colonie all’Inghilterra e Europa nell’orbita nazista.

Oppure, Hitler aveva già in mente l’attacco al vero nemico di sempre, gli Slavi, e, pensando al Lebensraum , vedeva una pace rapida con l’Inghilterra come la scorciatoia per l’invasione dell’Urss.

Se pensiamo alle letture di cui Hitler aveva nutrito il proprio fanatismo (Chamberlain, Gobineau) e al suo rispetto, nato nelle trincee della prima guerra mondiale, per i soldati britannici, potremmo azzardare che Hitler, nella sua analisi farneticante della realtà, ritenesse gli Inglesi come sostanzialmente affini, per razza e carattere, ai Tedeschi; egli, quindi, sarebbe stato incline a pensare possibile un’alleanza "ariana", contro il comune nemico slavo, che il gesto di buona volontà di Dunkerque avrebbe favorito.

Sono solo ipotesi, naturalmente; la verità è che gli Inglesi ebbero il tempo di inviare a Dunkerque tutti i battelli disponibili (operazione Dynamo), riportando a casa, tra il 27 maggio ed il 4 giugno, 350.000 uomini, tra cui 100.000 Francesi, mentre i Tedeschi, tardivamente, davano l’attacco alla sacca e la bombardavano dal cielo.

Forse, dire che Hitler perse la guerra a Dunkerque è un eccesso: in realtà, almeno fino al 1942, le cose continuarono ad andare bene, e a volte benissimo, per l’Asse; tuttavia, dalle spiagge di Dunkerque, oltre che l’esercito inglese, i Britannici portarono a casa qualcosa di più importante e di invisibile: la volontà di resistere. 

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Il mondo in guerra.

(1940-1943).



1940.

Con l’occupazione della Francia da parte dei tedeschi, Hitler era padrone dell’Europa continentale: praticamente tutto il Vecchio Continente, dalla Norvegia alla Sicilia e dalla Polonia a Capo Finisterre, si trovava sotto l’egida dell’Asse. La Francia, dopo l’armistizio del 22 giugno, era per metà occupata dalla Wehrmacht e per metà sottoposta al governo collaborazionista di Vichy; l’atteggiamento francese non era chiaro e, se da una parte c’erano stati l’appello radiofonico di De Gaulle (18 giugno) da Londra e, per conseguenza, la nascita della Francia Libera, cui avevano aderito diverse colonie africane, dall’altra c’era stato l’episodio vergognoso di Mers el-Kebir, nel quale le navi da battaglia inglesi avevano, proditoriamente, attaccato la flotta francese nel porto africano, dato che questa si rifiutava di consegnarsi, obbedendo alle disposizioni dell’armistizio (3 luglio). Il sentimento antibritannico nelle colonie francesi crebbe, in seguito a questo e ad altri episodi, come quello, di pochi giorni successivo a Mers el-Kebir, dell’attacco alla corazzata Richelieu, alla fonda a Dakar: l’intesa tra Francia Libera ed Inghilterra non fu, fin dall’inizio, idilliaca, e su questi toni proseguì, fino alla polemica sull’entrata a Parigi di Leclerc, nel ’44. Prova ne sia il fallimento del tentativo di sbarco anglo-gaullista proprio a Dakar, il 23 settembre del 1940, in cui il comandante della piazzaforte respinse con la forza i sedicenti alleati.

Nel frattempo, Hitler aveva offerto alla Gran Bretagna una pace a condizione, prontamente respinta dal ministro degli Esteri, Lord Halifax (22 luglio); mentre gli stormi della Luftwaffe avevano già cominciato a colpire obiettivi sul suolo inglese: iniziava la Battaglia d’Inghilterra. A proposito di questo scontro leggendario tra le forze aeree tedesche quelle inglesi, è opportuno sfatare qualche mito e chiarire qualche concetto.

È probabilmente vero ciò che disse Churchill a proposito della Battaglia d’Inghilterra, cioè che mai tanti avevano dovuto tutto a tanto pochi, però, oltre ai valorosi piloti della Royal Air Force, almeno tre elementi giocarono a favore dei britannici in quei due fatali mesi, agosto e settembre del 1940, in cui si decisero le sorti della guerra. Tanto per cominciare, gli inglesi possedevano un sistema radar sulle coste che era già operativo e funzionava egregiamente, il che permise loro di economizzare e dirigere sul bersaglio gli interventi dei loro intercettori.

In secondo luogo, la loro industria aeronautica lavorava a pieno regime nella produzione di caccia, mentre quella tedesca tendeva a cambiare indirizzo ad ogni evoluzione del pensiero strategico hitleriano.

Ultima, potentissima, atout nelle mani degli inglesi era la presenza al vertice della Luftwaffe del Maresciallo del Reich, Hermann Goering.

Egli, oltre a non avere azzeccato una sola scelta strategica in tutto il conflitto, era rimasto contrariato, a suo tempo, dai successi della Wehrmacht nella campagna di Francia, che avevano lasciato un po’ in ombra la Luftwaffe; perciò, passò il suo tempo a boicottare iniziative anfibie contro la Gran Bretagna, continuando a promettere al Führer che la sola arma aerea avrebbe messo in ginocchio gli inglesi, senza neppure degnarsi di andare a vedere coi propri occhi cosa stava succedendo al fronte. Clamorosamente, proprio quando, ai primi di settembre, i bombardamenti dei campi d’aviazione inglesi stavano per piegare la resistenza della Raf, Goering optò per un cambio di tattica, iniziando i bombardamenti di Londra, tanto spettacolari quanto, militarmente, poco efficaci. Dato che la promessa di portare alla resa gli Inglesi bombardandoli dal cielo non era stata mantenuta e che, vuoi per le condizioni della Manica, vuoi per la presenza preoccupante della Home Fleet britannica, vuoi per l’incoercibile timore di Hitler per le operazioni anfibie, l’operazione Seeloewe, ossia lo sbarco tedesco in Inghilterra era stata, il 17 settembre, "aggiornata" sine die dal Führer, l’autunno vide solo incursioni terroristiche nei cieli britannici, come quella che, il 14 novembre, distrusse per buona parte la città di Coventry: la Battaglia d’Inghilterra era perduta. Ma i dispiaceri per i tedeschi non erano finiti: gli italiani, in Africa, erano passati all’offensiva, conquistando la Somalia Britannica (10 agosto) e scatenando un’offensiva nel Nordafrica contro le truppe del generale Wavell (14 settembre); se non che Wavell, dopo un paio di mesi di stasi, aveva ricacciato le truppe italiane, comandate da Graziani, in Cirenaica; questo mentre gli Inglesi in A.O.I. avevano duramente contrattaccato, penetrando in Eritrea ed in Somalia Italiana (gennaio 1941), liberando la Somalia Brit. (marzo 1941) e costringendo il valoroso comandante italiano, il Duca d’Aosta, alla capitolazione dell’Amba Alagi (18 maggio 1941). Come se non bastasse, il 28 ottobre del 1940, Mussolini aveva attaccato la Grecia, contando di fare una blitzkrieg balcanica.

La realtà, tragicamente diversa per i nostri soldati, fu quella di un conflitto in un Paese montuoso, senza strade, con un clima terribile e contro un nemico che stupì perfino i propri alleati con la sua tenacia ed il suo valore.



1941.

In Grecia, le nostre truppe, male equipaggiate e peggio comandate, nonostante prodigi di eroismo, specialmente da parte delle divisioni alpine, dovettero addirittura retrocedere, ed il conflitto, spostatosi in Albania, rischiò di trasformarsi in un disastro.

Per evitare questo cataclisma sullo scenario balcanico, contiguo a quello in cui, di lì a poco, Hitler avrebbe scatenato l’operazione Barbarossa e, soprattutto, per salvare il suo amico Mussolini da una terribile figuraccia, Hitler, il 6 aprile del 1941, attaccò la Jugoslavia e la Grecia. Alla fine del mese, gli Iinglesi evacuarono, dopo soli due mesi dal loro intervento a favore dei greci, il Paese balcanico, che capitolò.

I preparativi di Barbarossa, però, erano stati in tutta fretta posticipati, e questo significava dimezzare il tempo utile per sconfiggere il colosso sovietico prima della stagione piovosa, quella che in Ucraina, secondo un proverbio, "Con un cucchiaio d’acqua produce un secchio di fango": nel 1941, la stagione delle grandi piogge, in Russia, sarebbe cominciata il 10 ottobre!

In realtà, l’esercito italiano, pur composto per buona parte da combattenti di prim’ordine, era del tutto inadeguato in termini tecnici e strategici a fronteggiare una guerra su vasta scala: gli aeroplani non avevano neppure sistemi radio efficienti, le navi non avevano sistemi di puntamento telemetrici e radar, il che le rendeva vulnerabili, soprattutto di notte, le armi individuali erano antiquate, non c’era un solo modello di carro armato che potesse anche solo lontanamente competere con gli equivalenti alleati, sia per peso che per armamento, i rifornimenti erano tragicamente problematici, sia nei Balcani che in Africa; insomma, tutto ciò che restava al fante italiano era il proprio valore. Questo valore, purtroppo, rifulse soprattutto nella disperazione, e senza influire sull’inevitabile esito dello scontro. A questo si deve aggiungere la quasi proverbiale incapacità dei comandanti di grandi unità, che faceva uno stridente contrasto col valore e la capacità dei comandanti ai livelli più bassi, che, viceversa, furono tra i migliori dell’intero conflitto.------------------------------------------------

 

 

 

 

 Che dire, per esempio, dello sciagurato comportamento dei nostri ammiragli, che condussero la nostra bella squadra di Taranto ad una serie di rovesci, di cui la beffa dell’aereosiluramento dell’11 novembre 1940, che colpì la Cavour, la Duilio e la Littorio, cioè metà della nostra flotta, alla fonda nel porto pugliese, non fu che il prologo? La verità, tuttavia, è che l’entrata in guerra dell’Italia, che, sulla carta, doveva rappresentare un aiuto notevolissimo per la Germania, si rivelò quasi un peso, distogliendo truppe e materiali dai progetti hitleriani.

Mentre i suoi U-boot falcidiavano i convogli alleati, Hitler, intanto, si preparava a quello che sarebbe stato l’attacco più poderoso della storia militare: quello alla Russia sovietica, che, fin dai tempi del Mein Kampf, egli aveva prefigurato come dovere politico della Germania nazionalsocialista e come necessità tedesca di Lebensraum. Intanto, però, ai successi dei branchi sottomarini di Doenitz e di Prien non corrisposero uguali successi delle unità di superficie: il 27 maggio del 1941, la Kriegsmarine perse la sua ammiraglia, probabilmente la più bella nave da battaglia mai costruita, la Bismarck, resa ingovernabile dal siluro di uno Swordfish e, in seguito, affondata dai cacciatorpediniere e dalle due navi di linea Rodney e George V, seicento miglia ad ovest di Brest.

I pensieri di Hitler, però, erano tutti per la grande impresa ad Est: almeno in apparenza, l’esercito germanico, galvanizzato dai facili successi ad Occidente, era una macchina poderosa ed invincibile. Il Führer diceva: "Il peggiore fante tedesco è superiore al migliore fante straniero!". Questa macchina, però, era in realtà assai meno potente di quanto non sembrasse a prima vista: era raddoppiato il numero di divisioni corazzate rispetto all’inizio della guerra, ma i carri erano scesi, in media, da 250 a 190 per divisione, e l’industria tedesca non riusciva a produrre nemmeno la metà dei 600 carri mensili che aveva promesso. Hitler disponeva di circa 3.300 panzer, che sono una bella cifra, ma che erano solo 700 mezzi in più rispetto all’esercito che aveva invaso la Francia; e la Russia non era la Francia! Più dell’ottanta per cento dell’esercito tedesco si muoveva ancora a piedi e la stragrande maggioranza dell’artiglieria era ippotrainata: ecco perché la terribile stagione del fango russo non doveva trovare le truppe in manovra, ed ecco perché il ritardo dovuto alla conquista dei Balcani si sarebbe rivelato determinante. La vastità del suolo sovietico, infine, imponeva una schiacciante superiorità aerea; invece, la flotta aerea sul fronte orientale, all’inizio di "Barbarossa", avrebbe contato solo 720 caccia, 1.160 bombardieri e 120 ricognitori. Il problema vero della macchina bellica hitleriana, però, è sempre stato il carburante: i carri ne avevano per soli tre mesi di operazioni.

Hitler avrebbe dovuto pazientare almeno altri tre anni, se voleva avere qualche possibilità di successo: invece, quella che, all’inizio, parve una cavalcata trionfale, si trasformò in un terribile calvario. Domenica 22 giugno 1941, tre diversi gruppi d’armate tedeschi, comandati rispettivamente da Leeb (nord), Bock (centro) e Rundstedt (sud), per un totale di circa tre milioni di uomini, scatenarono una poderosa offensiva contro l’Urss.

Il 30 di giugno Leeb occupava la Lituania, Minsk venne accerchiata; l’8 luglio Bock era al Dniepr, il 7 agosto l’accerchiamento si estese a Smolensk, il 25 Leeb entrò a Tallin, in Estonia, e puntò su Leningrado; Rundstedt invase l’Ucraina e puntò su Odessa, Gomel fu accerchiata; il 19 settembre i tedeschi entrarono a Kiev. Nulla sembrava poter arrestare questa serie impressionante di manovre a tenaglia, che distrussero un’armata sovietica dopo l’altra; ma le armate di Stalin erano almeno il triplo di quello che avevano preventivato gli strateghi dell’OKW. Ormai, i grandi obiettivi di Hitler sembravano a portata di mano: Leningrado, Mosca, Stalingrado ed i pozzi petroliferi del Sud.

I sovietici, invece, dopo aver perso Kharkov, Rostov e la Crimea, contrattaccarono e, a dicembre, per la prima volta bloccarono le truppe del Reich, a pochi chilometri da Mosca: il 19 dicembre, l’OKW comunicò alle truppe l’ordine di fortificarsi per la stagione invernale. Nella storia della Seconda guerra mondiale ci sono stati momenti topici, in cui le cose avrebbero potuto volgere a favore dell’uno o dell’altro: è quello che i tedeschi chiamavano Schwerpunkt, punto di gravità, riferendosi a dove premere per far evolvere favorevolmente una battaglia; certamente, uno di questi momenti fu il dicembre 1941, perché non solo il sogno hitleriano di prendere Mosca prima dell’inverno fallì, ma perché, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour, il 7 dicembre entrarono in guerra gli Stati Uniti, con il loro potenziale industriale e militare del tutto inimmaginabile per le nazioni europee. Churchill aveva vinto: egli aveva legato ogni sua scelta all’entrata in guerra degli Usa, e quando questo fu un fatto compiuto, egli seppe che la guerra, presto o tardi, sarebbe stata fatalmente vinta dagli Alleati. Per il momento, però, ad un osservatore esterno, la situazione sarebbe apparsa disperata per gli avversari dell’Asse: la flotta del pacifico americana era stata messa fuori combattimento, Hitler era alle porte di Mosca e padrone dell’Europa, gli inglesi in Africa erano stati respinti dalle truppe di Rommel; eppure, proprio quando sembrava che l’Asse potesse farcela, perse la lena: non ebbe più le energie per andare avanti, e, da quel momento, le truppe tedesche, italiane e giapponesi cominciarono, lentamente, prima a fermarsi e poi, inesorabilmente, ad indietreggiare. 



1942.

I successi nipponici in Estremo Oriente diedero la medesima impressione di fulmineità e di inarrestabilità di quelli tedeschi in Europa: un esercito valoroso e ben comandato, una forza aerea di prima qualità ed una flotta grande e moderna permisero ai soldati del Sol Levante di conquistare un enorme territorio in tempi brevissimi.

Il tallone d’Achille dei giapponesi era la mancanza di materie prime: dopo le loro conquiste del 1942, essi, in teoria, potevano contare sulle enormi risorse dei territori conquistati, ma, di fatto, non riuscirono a sfruttarle che in minima parte. Gli Stati Uniti, viceversa, avevano subito un duro colpo, a Pearl Harbour, quando gli aerei della squadra dell’ammiraglio Nagumo avevano fatto a pezzi le navi di linea statunitensi, all’ancora nel porto hawaiano, ma le loro tre portaerei di squadra erano sfuggite all’attacco, e la loro industria aveva cominciato a produrre mezzi militari a pieno regime: il comandante della Marina imperiale, Yamamoto, che ben conosceva lo spaventoso potenziale bellico americano, era uno dei pochissimi che non avevano condiviso l’enorme entusiasmo che aveva pervaso il Giappone dopo il successo di Pearl Harbour, ed i fatti, presto, gli avrebbero dato ragione. Subito dopo lo scoppio della guerra, ancora nel dicembre del 1941, i soldati del Tenno avevano occupato Bangkok e l’importantissima base britannica di Hong Kong; nel gennaio del 1942, in sole quattro settimane, i giapponesi occuparono la Malesia, presero Manila, sbarcarono nelle Molucche, in Nuova Guinea e alle Celebes. Il 15 febbraio, capitolò la grande base inglese di Singapore, con i suoi poderosi cannoni ridicolmente puntati nella direzione opposta a quella dell’attacco nipponico; i giapponesi sbarcarono nella Sonda e occuparono Giava (28 febbraio). Per tagliare definitivamente fuori la Cina, i soldati imperiali invasero, poi, la Birmania: Rangoon cadde il 7 marzo; due giorni dopo si arrendevano gli ultimi olandesi su Giava.

In aprile si videro l’occupazione nipponica di Sumatra (6) e la resa degli americani a Bataan, nelle Filippine. Tuttavia, il vento stava già cambiando: il 7 di maggio i giapponesi subirono una prima sconfitta aeronavale, nel Mar dei Coralli (anche se, in termini di perdite, finì alla pari) e, il 18 dello stesso mese, Tokio subì l’onta di un’incursione di bombardieri americani; ma la vera svolta si ebbe con la battaglia delle Midway (3-5 giugno 1942), in cui le portaerei americane ebbero la meglio sulle rivali giapponesi del solito Nagumo, affondandole tutte e quattro e perdendo la sola Yorktown, già danneggiata nel Mar dei Coralli. I giapponesi, in luglio e agosto sarebbero avanzati ancora, occupando Guadalcanal, nelle Salomone; ma proprio da Guadalcanal sarebbe partita la controffensiva statunitense, iniziata con il celebre sbarco dell’Usmc (United States Marine Corp), il 7 di agosto. In Africa settentrionale, il 1942 si era aperto con le forze dell’Asse che, dopo un’offensiva inglese in novembre, che le aveva respinte entro Natale del 1941 fino a El-Agheila, si preparavano a rispondere. Da El-Agheila, il 21 gennaio partì una controffensiva di Rommel, che avrebbe portato le truppe italo-tedesche a Bengasi (29 gennaio) e poi a Bir-Hakeim (10 febbraio), da cui, dopo una lunga stasi operativa, sarebbe partito lo sforzo finale dell’Asse per arrivare ad Alessandria. Il 27 maggio 1942, la Volpe del deserto calò il suo gioco, varcò la frontiera egiziana e puntò decisamente sul delta del Nilo, occupando Tobruk; lo slancio offensivo si esaurì nei pressi della depressione di Qattara, dove i due eserciti si fronteggiarono fino al 24 ottobre: la località di massima penetrazione si chiamava "Due bandiere", in arabo El-Alamein. In Russia, nel frattempo, dopo la lunga pausa invernale, era iniziato il ciclo operativo del 1942; in Crimea, Manstein aveva sfondato: l’1 luglio cadde Sebastopoli. Da Kharkov, Voronez e Rostov, l’esercito tedesco attaccò verso il fiume Don, raggiungendo il Volga a Dubovka e toccando le difese perimetrali di Stalingrado, il 20 luglio; il 27 agosto, la Wehrmacht era a 120 chilometri dal Caspio e dalle sue immense riserve petrolifere, mentre, il 12 settembre, iniziava la battaglia di Stalingrado. Una controffensiva sovietica, scattata il 19 novembre, accerchiò la 6a armata del Feldmaresciallo Von Paulus, che si era impadronita di gran parte della città di Stalingrado; a nulla valse il tentativo di Manstein di aprire un varco nella sacca che circondava le truppe tedesche; in un clima polare e in condizioni da inferno dantesco, gli uomini di Paulus andarono incontro all’annientamento, combattendo oltre le umane possibilità. Goering aveva assicurato 500 tonnellate al giorno di rifornimenti aerei per i soldati nella sacca: la media giornaliera non avrebbe, invece, mai superato le 96 tonnellate, mentre la razione di pane giornaliero sarebbe scesa a 50 grammi per soldato… e, poi, nemmeno a quelli. Il 2 febbraio 1943 la 6a armata non esisteva più. Nell’immenso dramma dell’inverno 1942-’43, non può non avere un posto a sé la tragedia dell’Armir italiana, schierata sul Don, tra ungheresi e romeni. Proprio questi ultimi cedettero di fronte ad un attacco corazzato sovietico, il 18 novembre 1942; di qui sarebbe derivato l’enorme crollo che travolse l’intero fronte e che vide gli italiani, nonostante il grande valore di alcuni reparti, tra cui le tre divisioni alpine, Julia, Cuneense e Tridentina, affrontare la terribile ritirata che costò quasi centomila uomini all’armata italiana, sconsideratamente inviata nella steppa senza mezzi di trasporto, con armi del tutto inadeguate e con un vestiario assolutamente insufficiente. La fine del 1942 fu anche la fine delle speranze di vittoria dell’Asse: sul fronte orientale l’esercito tedesco era tutt’altro che sconfitto e, dopo un arretramento delle proprie posizioni, avrebbe avuto altri successi tattici, ma le energie per ottenere la vittoria strategica erano esaurite; la Germania non riusciva a rimpiazzare le proprie perdite, umane e di materiali, mentre i sovietici continuavano a moltiplicare aerei, carri e cannoni, anche grazie all’enorme aiuto fornito loro dagli Usa, che arrivarono a trascurare, a favore della Russia, le forniture di materiali alle proprie truppe nel Pacifico. Il 23 ottobre il comandante dell’8a armata britannica, Montgomery, aveva sferrato un attacco poderoso ad El-Alamein ed era riuscito a passare, nonostante l’incredibile eroismo dei difensori, tra i quali brillò in modo particolare la divisione paracadustisti Folgore, che si immolò letteralmente per contendere il terreno, metro per metro,  alle preponderanti forze alleate. Il 13 novembre Montgomery era a Tobruk e il 20, cadeva Bengasi. In Africa l’anno si concluse con una controffensiva di Rommel a El-Agheila, ma erano gli ultimi colpi di coda: il 12 maggio del 1943 gli ultimi italiani e tedeschi, a Capo Bon, si sarebbero arresi. La tappa successiva sarebbe stata la Sicilia.

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A STALINGRADO AD HIROSHIMA



Se il 1942 rappresentò il momento di maggior espansione territoriale delle forze dell’Asse, con il 1943 esse cominciarono, seppure non sempre in maniera clamorosa e con qualche ribaltamento di fronte, inesorabilmente a ritirarsi in tutti gli scenari della guerra.

Dopo la resa di Paulus a Stalingrado (2 febbraio 1943), sul fronte russo le truppe sovietiche avanzarono decisamente, conquistando Kursk, Rostov e Kharkov; il 25 di febbraio, Manstein scatenò una controffensiva nel saliente conquistato, riprendendo, il 18 marzo, Kharkov e Bielgorod; fino al luglio del 1943, il fronte russo sarebbe rimasto stabile sulla linea Leningrado/Veliki-Luki/Orel/Kursk/Taganrog.

In Africa settentrionale, dopo lo sfondamento di El Alamein e l’ultimo tentativo di riscossa dell’Afrika Korps a Kasserine (14-22 febbraio), appariva chiaro che la situazione stesse precipitando, tant’è che, ai primi di marzo, Hitler richiamò Rommel in Germania, per evitargli l’umiliazione della sconfitta; Patton e Montgomery, che guidavano le forze alleate provenienti rispettivamente da Ovest e da Est, si congiunsero a El-Qattara l’8 aprile: un mese dopo (12 maggio), le ultime truppe italo-tedesche in Nordafrica avrebbero capitolato a Capo Bon.

Anche sul fronte del Pacifico le forze dell’Asse subirono un grave rovescio, anche se le perdite assommarono, nella circostanza, ad un solo uomo: il 18 aprile, una squadriglia di Lightning americani, guidati da un’intercettazione dei servizi segreti, abbatterono l’aereo su cui viaggiava l’ammiraglio Yamamoto; con lui moriva un eccellente stratega, ma anche l’unico uomo degli alti comandi nipponici che fosse dotato di un grande realismo e di una chiara visione dell’andamento del conflitto: si trattò di una perdita gravissima per il Sol Levante e che avrebbe causato molti guai al Giappone.

Il 1943 segnò, inoltre, l’inizio della campagna di distruzione sistematica della Germania per mezzo di incursioni aeree; in preparazione allo sbarco sul suolo francese, la RAF e l’USAAF attaccarono scientificamente i centri industriali e i porti tedeschi, adottando la tecnica della divisione dei compiti: gli americani colpivano gli obiettivi di giorno, con i loro B17 e B24, mentre i Lancaster e gli Stirling inglesi attaccavano di notte, in formazioni sempre più massicce, che spesso superavano i mille velivoli.

Non era ancora il sistema dell’"Area bombing", cioè del bombardamento a tappeto indiscriminato, ma ne era certamente il preludio; tutto ciò era permesso dall’enorme superiorità di mezzi che faceva pendere decisamente la bilancia dalla parte degli Alleati; la caccia tedesca doveva misurarsi con formazioni sempre più compatte di incursori e con decine di migliaia di mitragliere pesanti, che battevano il cielo intorno ai quadrimotori.

L’industria bellica tedesca, comunque, compì sforzi che hanno del prodigioso, nel periodo 1943-44, moltiplicando il numero di aerei e di carri armati che uscivano dalle fabbriche; tuttavia, il divario non poteva che aumentare continuamente, tanto che, al tempo dello sbarco in Normandia (6 giugno 1944), gli Alleati erano padroni incontrastati dei cieli, nonostante la comparsa dei primi caccia tedeschi a reazione, i Me 262.

Ancora più evidente era la sproporzione di mezzi tra gli angloamericani e la Regia Aeronautica, che si immolò letteralmente, prima contendendo al nemico i cieli d’Africa e del Mediterraneo e poi quelli dell’Italia, in una lenta consunzione di uomini e mezzi.

Nel luglio del 1943, infatti, gli angloamericani erano sbarcati in Sicilia, conquistando il primo lembo d’Europa; altri sbarchi, ben più rilevanti, sarebbero seguiti, ma la Sicilia fu, in un certo senso, una prova generale delle reali capacità difensive della fortezza europea.

Le truppe italiane opposero poco più di una resistenza simbolica, un po’ per l’inverosimile sproporzione di mezzi, un po’ per la sensazione che, ormai, tutto stesse andando a rotoli (il 25 luglio, il MCF avrebbe approvato l’"Ordine del giorno Grandi", che esautorava Mussolini) e che la cosa migliore fosse concludere le ostilità il più in fretta possibile.

Ben diverso fu l’atteggiamento delle truppe germaniche, che, soprattutto nell’interno dell’isola, impegnarono duramente le truppe alleate.

Col 25 luglio e con l’arresto del Duce, si può dire che ebbe inizio quel processo di scollamento e poi di aperto conflitto che avrebbe diviso il Paese e causato la Guerra Civile italiana; l’atteggiamento del maresciallo Badoglio, subentrato a Mussolini nella carica di capo del Governo, alimentò le incertezze nei nostri soldati: da una parte, era evidente che Badoglio mirava alla pace e, forse, ad un repentino cambio di schieramento, ma, dall’altra, per tenere buono l’alleato germanico (che aveva mangiato da tempo la foglia), egli aveva proclamato, già il 28 luglio, il proseguimento della guerra al fianco della Germania.

Si preparava l’immensa tragedia dell’8 settembre, causa di tanti mali e di tanti drammi, i cui strascichi, ancora oggi, a sessant’anni di distanza, limitano la libertà politica e la serenità ideologica del nostro Paese; questa tragedia la dobbiamo, per buona parte, al responsabile principale di un’altra immensa tragedia, quella di Caporetto: il maresciallo Pietro Badoglio, massone piemontese e figura sciagurata della storia d’Italia.

L’estate del ’43 vide anche il riprendere delle iniziative ad Est; nel luglio, i sovietici respinsero un tentativo germanico a Kursk ed attaccarono con vigore a Viazma, riuscendo, agli inizi d’agosto, a sfondare il fronte, riconquistare Kharkov e puntare direttamente al Dniepr; mentre gli Alleati completavano l’occupazione della Sicilia e Roma veniva dichiarata "città aperta"; intanto, i pozzi petroliferi di Ploesti, fondamentali per il rifornimento della Germania, venivano pesantemente bombardati, riducendo drasticamente la capacità di movimento dei Tedeschi.

In settembre, i Russi presero Smolensk (24 settembre), seguirono il Dniepr fino a Kiev e conquistarono, infine, l’ex capitale il 6 novembre.

Alla conferenza di Quebec (11-24 agosto), gli Alleati avevano approvato i piani per lo sbarco in Europa; da questo momento in poi, la Gran Bretagna avrebbe assistito ad un accumulo di mezzi senza precedenti, fino al fatidico D-Day.

L’autunno del 1943 vide un susseguirsi di conferenze diplomatiche alleate: una volta compreso che la guerra era vinta e che era soltanto questione di tempo, Inghilterra, Usa ed Urss cominciavano a cercare di avvantaggiarsi nell’inevitabile spartizione; in ottobre vi fu la Conferenza di Mosca, in novembre quella del Cairo e la ben più importante Conferenza di Teheran cui presero parte i tre plenipotenziari alleati: Stalin, Churchill e Roosevelt.

Intanto, in seguito all’armistizio dell’8 settembre, di cui ci occuperemo in un prossimo inserto, Mussolini, dopo la sua liberazione dal Gran Sasso e il suo ricovero in Germania, aveva costituito, nel nord del Paese, un governo repubblicano, sostenuto dai Tedeschi, la Repubblica Sociale Italiana (23 settembre).

La contromossa di Badoglio fu quella di dichiarare guerra all’ex alleato germanico (13 ottobre), ribaltando completamente la posizione dell’Italia monarchica rispetto all’inizio del conflitto.

Mussolini, il 3 novembre, fece arrestare il genero, Galeazzo Ciano, che avrebbe affrontato il processo di Verona e la fucilazione, insieme ad altri gerarchi firmatari dell’OdG "Grandi"(12 gennaio 1944).

La fine del 1943 trovò gli Alleati in piena offensiva, con i Russi che avevano definitivamente riconquistato Korosten, più volte presa e perduta dai contendenti, e con gli Americani che sbarcavano in Nuova Britannia e risalivano lentamente la Penisola Italiana, arrestandosi di fronte alla linea Gustav, che rappresentava il caposaldo invernale tedesco.

Il 22 gennaio del 1944, gli Alleati sbarcarono ad Anzio, a sud di Roma, cercando di superare il cul de sac rappresentato da Cassino, dove le loro truppe si dissanguavano senza riuscire a passare; proprio mentre infuriava la battaglia di Cassino, il comandante in capo tedesco in Italia, Kesselring, scatenò un’offensiva contro la testa di ponte di Anzio (17-29 febbraio), che, però, fallì.

Sul fronte orientale, i Russi stavano ormai avanzando in tutti i settori; il 14 gennaio iniziarono una poderosa offensiva per liberare Leningrado dall’assedio, il 22 febbraio l’Armata Rossa entrava a Krivoi-Rog, il 26 marzo i Russi raggiungevano il Prut e la frontiera rumena.

Questa campagna invernale logorò terribilmente le forze tedesche, che, ormai vedevano assottigliarsi spaventosamente le proprie risorse, in particolare di mezzi corazzati, aerei e carburante; ma anche il salasso umano era terribile.

Mentre gli Americani bombardavano Budapest , ora sotto il diretto controllo dei Tedeschi e delle Croci Frecciate, e Bucarest (aprile ’44), le truppe sovietiche conquistavano Ternopol (5 aprile), Odessa (10 aprile) e, infine, Sebastopoli (9 maggio), quando si concluse il ciclo operativo invernale.

Da ogni parte del mondo, stavano, intanto, affluendo truppe per attaccare la fortezza Europa: i 450.000 Francesi della neonata Armée, i Brasiliani, i Palestinesi, gli Anzacs, i Polacchi, gli Indiani; si avvicinava il momento tanto temuto da Hitler, quello dell’attacco al Vallo Atlantico.

In realtà, il sistema difensivo della costa francese era tutt’altro che insuperabile: soltanto nella zona del Pas de Calais la fascia costiera di batterie a lunga gittata, di blockhaus e di trappole anticarro ed antinave era efficiente; per il resto, le difese erano poco profonde e piuttosto approssimative, data la scarsità di riserve (in pratica, due sole divisioni panzer) e la precarietà degli apprestamenti fissi.

Hitler, è notorio, non credeva all’eventualità di uno sbarco sulle coste normanne, e nemmeno le comunicazioni del suo ufficio informazioni sui preparativi alleati valsero a smuoverlo dall’idea che l’azione principale sarebbe avvenuta sulle basse coste del nord.

Preda delle sue allucinazioni, che si sarebbero acuite in seguito all’attentato di Rastenburg del 20 luglio, il Fuehrer non si fidava dei propri generali ed era sempre più spesso preda di un delirio strategico, in cui spostava divisioni inesistenti e si affidava alle proprie divinazioni astrologiche e al proprio intuito.

Incredibilmente, perciò, i Tedeschi vennero presi alla sprovvista dallo sbarco in Normandia, che, altrimenti, avrebbe potuto, per come sono poi andate le cose, risolversi in un disastro per le pur strapotenti forze alleate.

Intanto, nell’immediata vigilia di Overlord, gli Americani progredivano nel Pacifico, sbarcando in Nuova Guinea a Saidor (2 gennaio), nelle Marshall (31 gennaio), nelle Caroline (16 febbraio) e riconquistando Wake (15 maggio) e Biak (27 maggio).

In Italia, il 17 maggio cadde Cassino e, una settimana più tardi, la 5a armata del generale Clark si ricongiunse con le truppe sbarcate ad Anzio: la linea Gustav era caduta.

E’ naturale, però, che il 1944 risulti dominato dall’evento chiave di tutta la guerra, ossia lo sbarco in Normandia.

All’alba del 6 giugno 1944, si presentò davanti alle coste francesi un’armata d’invasione forte di 4.126 navi e di più di 15.000 aerei, che trasportavano la 1a armata Usa e la 2a britannica: la superiorità aerea alleata era dell’ordine di 50 a 1!

Lo sbarco avvenne al mattino, con la bassa marea, per evidenziare gli ostacoli antisbarco sommersi: anche questo prese in contropiede il comandante delle forze di difesa tedesche, Rommel.

Le spiagge su cui sbarcarono gli Americani (Utah e Omaha) e quelle di competenza britannica e canadese (Gold, Juno e Sword), nella zona tra Caen e il Cotentin, entrarono per sempre nella storia; il cinema, oltre che la storiografia, ha contribuito ad alimentarne la leggenda ("Il giorno più lungo", "Salvate il soldato Ryan"), cui, pertanto, non aggiungeremo altre parole.

L’8 giugno, gli Americani erano a Bayeux, il 12 a Carentan, il 26 si arrendeva Cherbourg.

Durante il mese di Luglio, le città normanne caddero una dopo l’altra, mentre Rommel rimaneva gravemente ferito in un attacco aereo alla sua vettura; Caen era caduta il 9 luglio, il 19 Saint-Lô, il 30 Avranches, che avrebbe permesso uno sfondamento, che poi avvenne, in direzione della linea Somme-Aisne-Marna.

Nel frattempo, anche i Russi non erano rimasti con le mani in mano: le valorosissime truppe finlandesi avevano alla fine dovuto abbandonare la linea Mannerheim sotto gli attacchi dell’Armata Rossa (20 giugno); nel nord, i sovietici avevano invaso la Bielorussia ed i Paesi Baltici, erano penetrati in suolo polacco all’inizio di luglio e, nel breve volgere del mese, si erano presentati in Prussia orientale, minacciando direttamente il territorio del Reich.

La guerra, ormai, si combatteva in Germania, con tutte le conseguenze, anche psicologiche, che questo poteva comportare; incredibilmente, però, il popolo tedesco, pur presagendo l’inevitabile disfatta, non manifestava segni di cedimento nella sua fede per il Fuehrer, e, per la stragrande maggioranza, avrebbe conservato questa fede incrollabile fino alla fine.

Mentre l’offensiva in Polonia si arrestava e Varsavia insorgeva sotto la guida del generale polacco Bor, la Romania, invasa per buona parte dalle truppe sovietiche, si arrendeva; il re fece arrestare il dittatore Antonescu ed i Tedeschi persero un altro alleato.

Per quanto riguarda il nostro Paese, rinviando l’analisi della guerra civile ad un prossimo inserto, insieme ad altri temi storici particolarmente delicati della seconda guerra mondiale, come la Shoà, dobbiamo segnalare il fatto che, il 15 luglio, il governo si era reinsediato a Roma , dando l’impressione che, in almeno metà dell’Italia, ci si avviasse verso una difficile normalizzazione; la strada della pace era, però, ancora lunga: dopo la caduta di Livorno, di Firenze e di Pisa (19 luglio, 16 e 19 agosto), i Tedeschi si organizzarono su una nuova linea difensiva invernale, la Linea Gotica, che attraversava l’appennino tra Toscana ed Emilia-Romagna.

Nel frattempo, erano affluite al fronte alcune aliquote di truppe italiane repubblicane, addestrate e riorganizzate in Germania, mentre continuava a combattere valorosamente la Xa flottiglia MAS del comandante Borghese, cui affluivano in continuazione volontari, facendone lievitare gli effettivi in maniera esorbitante.

Anche l’estate del 1944 segnò, infine, una serie di progressi ulteriori degli Americani e dei Britannici nel Pacifico: nelle Marianne, in Nuova Guinea e in Birmania, i Giapponesi subirono duri rovesci e dovettero abbandonare Guam, il 10 agosto.

Dopo le difficoltà iniziali di Overlord, determinate, prevalentemente, dalla scarsità di porti cui fare affluire l’enorme massa di materiali e mezzi per rifornire le proprie armate, ora gli Alleati, proseguivano spediti in territorio francese.

Il 15 agosto vi era stato un notevole sbarco franco-americano in Provenza, che aveva creato un secondo fronte, stavolta meridionale, per le truppe che difendevano la Germania da occidente; il 19 dello stesso mese Parigi era insorta e, il 25, vi erano entrate le truppe alleate, salutate da un tripudio straordinario.

Il fatto che, insieme agli angloamericani si trovassero gli Sherman di Leclerc era costato quasi un incidente diplomatico tra Eisenhower e l’arcigno generale De Gaulle, che, lungo tutta la guerra, aveva cercato di imporsi come unico interlocutore francese degli Alleati, riuscendovi in virtù più della sua arroganza che di una sua reale rappresentatività del popolo francese: erano i primi segnali di come De Gaulle avrebbe interpretato il concetto di Grandeur, una volta capo della Francia.

Per farla breve, comunque, entro il mese di settembre, tutta la Francia e buona parte del Belgio erano stati occupati dagli angloamericani, le cui forze, provenienti dalla Normandia e dalla Provenza, si erano riunite, come le ganasce di un’immensa tenaglia, a Châtillon-sur-Seine, il 12 settembre.

Le truppe tedesche, però, guidate da Model, che aveva sostituito Kluge, suicidatosi dopo l’attentato del 20 luglio, si erano per buona parte sottratte alla trappola; si trattava, tuttavia, di un esercito sconfitto, deluso e praticamente disarmato, pallido fantasma di quello che aveva percorso, in senso inverso, le stesse strade nel 1940.

In quello stesso settembre del 1944, la Bulgaria cadeva e chiedeva l’armistizio ai sovietici, dichiarando guerra alla Germania (7-11 settembre), mentre le truppe russe e quelle jugoslave del maresciallo Tito si congiungevano a Negotin, il 15: il cerchio continuava a chiudersi sul Reich.

Ai primi di ottobre, gli Americani forzarono la linea Sigfrido, ad Aquisgrana, l’Ungheria venne invasa dai sovietici, mentre il generale Bor, a Varsavia si dovette arrendere ai Tedeschi; il 20 ottobre Tito entrò a Belgrado: il 13 dicembre Tito annunciò che la futura repubblica jugoslava sarebbe stata una federazione di sei stati; uno di questi stati comprendeva l’Istria e buona parte della Venezia Giulia, da cui già da tempo si stavano eliminando gli elementi nazionali italiani: si stava delineando il dramma delle foibe, il cui primo atto si era visto dopo l’8 settembre; anche di questo parleremo diffusamente nell’inserto sui temi scottanti della seconda guerra mondiale.

La fine del mese vide anche una pesante sconfitta aeronavale giapponese nel pacifico, con la battaglia di Leyte, in cui comparvero per la prima volta in numero rilevante gli aerei suicidi, i Kamikaze; quanto a Leyte, l’accanita resistenza giapponese cessò del tutto a dicembre; in pratica, gli unici settori in cui le truppe del Tenno non fossero in aperta crisi restavano la Cina e l’Indocina, dove le loro offensive raggiunsero buoni risultati, sia contro Ciang Kai-Scek che contro gli Americani, per il resto, la superiorità aeronavale degli Usa era troppo marcata per lasciare spazio a qualche speranza.

La guerra, di fatto, avrebbe potuto finire qui, almeno per quanto riguarda il fronte occidentale: ben presto, le avanguardie di Patton avrebbero, incredibilmente, trovato un ponte intatto sul Reno, a Remagen (6 marzo 1945) , e di lì la porta era praticamente spalancata fino a Berlino, giacchè non esistevano tra il Reno e la capitale forze consistenti, fatte salve le divisioni corazzate di Rundstedt, celate nella foresta delle Ardenne, ma quelle sarebbero dovute servire a tutt’altro.

A questo si opposero due eventi: il primo fu la scelta, tutta politica, degli Americani di lasciare ai Sovietici l’onore della conquista della capitale del Reich, ennesima prova del fascino incomprensibile che Stalin esercitava su Roosevelt.

Il secondo dipese esclusivamente dai Tedeschi e dalla loro disperata volontà di non arrendersi.

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Il 16 dicembre, infatti, con scorte di carburante decisamente irrisorie e confidando in un fattore aleatorio come il cattivo tempo che costringesse a terra gli aerei alleati, i carri Tiger germanici sbucarono all’improvviso nelle linee americane, seminando lo scompiglio: era la battaglia delle Ardenne, l’ultimo grande sforzo offensivo di Hitler.

In verità, nei piani del Fuehrer questo doveva essere un secondo attacco alla Francia, con esiti disastrosi e, forse, definitivi per le truppe sbarcate in Normandia, che dovevano essere tagliate fuori; ma, nella realtà, l’offensiva delle Ardenne avrebbe, al massimo, potuto scompigliare il fianco settentrionale delle armate Usa: di fatto, i carri tedeschi si ingolfarono intorno alla piazzaforte di Bastogne, senza neppure superare la Mosa.

Il 28 dicembre, gli Americani liberarono Bastogne dall’assedio e a metà di gennaio 1945 l’offensiva era stata del tutto rintuzzata, con la distruzione dei reparti corazzati nazisti.

Bisogna dire che le truppe germaniche a sud di Strasburgo se la stavano cavando meglio, tuttavia, in pratica, a febbraio, gli alleati costeggiavano il Reno per quasi tutto il suo percorso, fino alla conquista di Colonia e, come già detto, di Remagen, ai primi di marzo.

Naturalmente, in tutto questo periodo, non era passato un solo giorno senza che massicce formazioni di bombardieri avessero scaricato migliaia di tonnellate di bombe sul Reich: le città tedesche, ormai, sembravano città lunari, con scheletri di case smozzicate che sorgevano in un mare di macerie.

Tra tutte, citiamo Dresda, che, pur non rappresentando un bersaglio strategico, ed essendo stata, per questo motivo, fino ad allora risparmiata (le fabbriche di strumenti ottici si trovavano fuori del perimetro urbano, ed erano già state colpite), venne attaccata a più riprese, tra il 13 ed il 14 marzo.

Nella città si trovavano almeno 500.000 profughi, provenienti dalla Slesia e fuggiti di fronte alla ferocia sovietica; su di loro e sugli abitanti dell’antica capitale sassone, alle 22 del 13 marzo cominciano a piovere bombe da due tonnellate, destinate soprattutto ad infrangere i vetri su di un vasto raggio, per facilitare il propagarsi degli incendi.

Tre ondate di bombardieri Lancaster e B17 (più di 1.100 in tutto) sganciarono sulla città 650.000 bombe incendiarie, trasformando Dresda in un ciclone di fuoco che si autoalimentava per la depressione barometrica; nessuno scampo per gli abitanti, soffocati nei rifugi o arsi per strada, nessuna possibilità di soccorso, perché i cacciabombardieri americani mitragliavano senza pietà i carri dei pompieri che provenivano dalle città vicine: Dresda fu un episodio di una ferocia inaudita in una guerra che era stata inauditamente feroce, e causò circa 150.000 vittime, cioè più di qualunque altro bombardamento della guerra, compreso quello di Hiroshima!

Perfino il parlamento britannico insorse per questo atto di barbarie; ma nessuno ebbe il coraggio di dire che il bombardamento era stato espressamente chiesto dai sovietici, per scompigliare le retrovie del fronte orientale.

Il quale fronte, ormai, stava a sua volta crollando: il 13 febbraio Budapest si arrendeva, ai primi di marzo l’Armata Rossa entrò in Austria e nella Germania orientale, nello stesso momento cadeva la Pomerania; un poco alla volta, le forze sovietiche stringevano Berlino, cui Eisenhower aveva ufficialmente rinunciato, in una morsa.

Da questo momento in poi, ogni giorno segnò uno sviluppo deciso verso la fine del Reich: vediamo di riassumere gli avvenimenti in modo sintetico.

Il 10 aprile cadde Königsberg, il 12, il giorno della morte del presidente americano Roosevelt, cui succedette Truman, i Russi entrarono a Vienna, il 16 iniziò l’offensiva congiunta di Zukov e di Konev contro Berlino, il 17 si arresero le truppe della Ruhr, il 19 gli Alleati, in Italia, forzarono la linea gotica e presero Bologna, il 27 veniva assassinato Mussolini, il 29 i Francesi che avevano attaccato da nord e gli Alleati si congiunsero, a Torino, il 30 aprile Hitler si suicidava nel bunker della cancelleria, insieme alla moglie, Eva e, il 7 maggio, a Reims, le truppe tedesche si arresero senza condizioni.

La guerra in Europa si concludeva, con il suo strascico di drammi e di polemiche: alla fine, gli Americani avevano commesso l’errore di assecondare troppo Stalin, e questo si sarebbe ritorto contro di loro.

Le conferenze di Yalta (4-12 febbraio) e di Potsdam (17 luglio), in pratica, sancirono la divisione del mondo in due, consegnando una parte dell’Europa all’incubo comunista.

Churchill, sconfitto dal laburista Attlee alle elezioni di luglio 1945, riferendosi al suo sedicente alleato sovietico, commentò amaramente: "Abbiamo ammazzato il porco sbagliato!", il che la dice lunga sulla sua opinione riguardo al tiranno russo.

Intanto, anche la sorte del Giappone si stava compiendo.

In gennaio, MacArthur era sbarcato a Luzon, il 17 febbraio Mac era tornato, come aveva promesso nel 1942, a Corregidor e il 25 era entrato a Manila; anche le città nipponiche subirono, a partire dal marzo 1945, pesanti incursioni aeree, favorite dalla quasi completa distruzione dell’aviazione del Sol Levante: Tokio, Osaka, Yokohama, Nagoia e Kabè pagarono un duro prezzo; tra le città risparmiate, Hiroshima e Nagasaki avevano un appuntamento con il destino.

Il 16 marzo, cadde Iwo Jima e il 1 aprile gli Americani sbarcarono a Okinawa: la guerra ora minacciava direttamente l’arcipelago giapponese.

Mentre, una ad una, le isole del Pacifico cadevano, da Bougainville al Borneo, gli scienziati americani stavano ultimando i test per la prima esplosione atomica della storia: questa si realizzò ad Alamogordo, nel deserto del New Mexico, il 16 luglio del 1945, segnando l’inizio dell’era nucleare.

Il 6 ed il 9 agosto, due fratellini della bomba di Alamogordo, Little Boy e Fat Man, consegnavano Hiroshima e Nagasaki alla storia ed i loro abitanti all’olocausto atomico; il 15 agosto, l’imperatore ordinava di cessare ogni ostilità.

Il 2 settembre, , alla fonda nella rada di Tokio, con la capitolazione giapponese sul ponte della corazzata Missouri, finiva la seconda guerra mondiale.

Le vittime sono state calcolate in circa 40.000.000, anche se il loro vero numero non sarà mai calcolato.

Certamente incalcolabile è la mostruosa rovina, fisica e morale, che questo conflitto ha procurato all'umanità, e all'Europa, in particolare.