VERSO LA GRANDE GUERRA

 

Quando si parla delle cause, più o meno remote, dello scoppio della Grande Guerra, per solito si segue una specie di palinsesto: c’era un paese, la Germania, che voleva forsennatamente farsi largo nel mondo, e c’erano degli staterelli, piccoli ma cattivissimi, che litigavano continuamente nei Balcani: la Serbia, la Bulgaria, la Bosnia…

Ad un certo punto si contrapposero le manie imperialistiche pangermaniche, il revanscismo francese e le manie di grandezza panslaviste: di qui nacque il parapiglia, più o meno.

Come vedremo, tutto questo è vero: solo che, se vogliamo capire qualcosa delle vere ragioni che portarono decine di milioni di uomini a scannarsi per quasi cinque anni, questo è un po’pochino come punto di partenza.

D’altra parte, nei libri di storia, di solito, non si trova molto più di quello che ho scritto all’inizio.

Tanto per non sembrare di parte, solitamente si fa qualche cenno al fatto che i domini coloniali delle potenze europee creavano qualche problema di diplomazia internazionale, dopodichè, si arriva a Serajevo in un battibaleno.

Cerchiamo, invece, di farci un’idea di che genere di situazione c’era, nel mondo, o, almeno, in quel mondo che comandava i giochi, all’alba del primo conflitto mondiale, e ci renderemo subito conto che l’atmosfera non era idillica nemmeno un po’.

Tanto per cominciare, i democraticissimi Stati Uniti, di cui, solitamente si comincia a parlare solo a proposito della loro entrata in guerra, nel 1917, dopo il feroce affondamento del transatlantico Lusitania (erano stati duramente provocati, poverini: il fatto che il Lusitania, oltre che passeggeri trasportasse armi illegalmente è solo un dettaglio!), si dilettavano, nei primi anni del ’900, ad applicare alla lettera e con criteri ampiamente estensivi il dettato della "dottrina Monroe", ossia intendevano loro questione personale tutto ciò che accadeva nel continente americano e nel Pacifico.

Ad esempio, nel 1891, essi intervennero militarmente in Cile, in seguito ad un’insurrezione dei grandi proprietari terrieri, oppure non esitarono a dichiarare guerra alla Spagna, dopo che la corazzata Maine era esplosa (pare che gli Americani adorino dichiarare guerre dopo che qualche nave gli salta in aria!) nel porto di L’Avana dove aveva attraccato senza permesso (1898); questa guerra fruttò agli USA l’annessione di Guam, Portorico, delle Filippine e delle Hawaii.

Non si trattava di colonialismo, semplicemente perché le annessioni non vennero catalogate come colonie; la sostanza, tuttavia, non cambiava, e gli Usa ingrassavano a vista d’occhio, pur mantenendosi una facciata da patria della democrazia.

Se Atene piange, Sparta non ride, dicevano gli antichi.

Mentre gli americani impiantavano il loro modello di repubblica delle banane qua e là per il mondo, l’Inghilterra, la madre del liberalismo e dei diritti umani, oltre a godersi da un bel po’ i frutti del proprio espansionismo nell’Asia sudorientale ed in Africa, aveva messo gli occhi sul più importante bacino diamantifero ed aurifero della terra: il Transvaal; il particolare che questo territorio fosse occupato dalla popolazione boera, di origine olandese (ma gabellata per tedesca tout court dalla propaganda anglosassone), non fu che un fattore insignificante agli occhi di John Bull: scoppiò così la guerra anglo-boera (1899), in cui si sarebbe distinto quel pacioso forgiatore di giovani di carattere che risponde al nome di lord Baden-Powell, l’inventore dei Giovani Esploratori.

Già da un anno, il premier inglese, lord Kitchener, aveva rotto lo "splendido isolamento" albionico, tanto che le sue truppe, a Fascioda (1898), erano state ad un pelo dal far scoppiare una guerra con la Francia, che, zitta zitta, si stava espandendo nell’alto Nilo, zona da sempre d’interesse britannico.

Ora , però, una guerra era scoppiata davvero; e gli Inglesi, che si erano fatti le ossa in Africa nelle guerre contro gli Zulu, ce la misero tutta per vincerla; tanto che, dopo aver subito una serie di batoste dal piccolo ma agguerritissimo esercito boero, comandato da bravi generali (Smuts, Botha, Hertzog), i britannici non esitarono a deportare e chiudere in campi di concentramento la popolazione civile, inaugurando una tradizione che, di lì a qualche decennio sarebbe divenuta prassi comune dei belligeranti.

Alla fine, lo strapotere inglese non poteva non prevalere, e, infatti, nell’ottobre del 1902, la guerra si concluse con la pace di Veereniging, in cui, paghi delle conquiste geografiche, i sudditi di Sua Maestà concessero ai Boeri larghe autonomie e l’uso della loro lingua (l’Afrikaans), limitandosi a mettere le mani sulle miniere.

Possiamo dire, comunque, che gli anni a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, furono, senza dubbio, anni in cui l’Europa stava dando fondo alla sua politica coloniale, approfittando, spesso, di episodi di insofferenza verso occupazioni più o meno ufficiali da parte delle popolazioni indigene, per intervenire con le armi e creare possedimenti coloniali veri e propri.

Anche qui l’Inghilterra aveva indicato la strada, in India, dopo l’insurrezione del 1857, con l’annessione del subcontinente alla corona britannica.

Il copione si ripetè in Cina, dove, nel marzo del 1900, gli aderenti ad una setta nazionalista, gli Yihequan (più noti come Boxers, per via del loro pugilato rituale), stanchi delle ingerenze europee sul paese, assaltarono il quartiere delle legazioni straniere a Pechino, uccisero l’ambasciatore tedesco Von Ketteler e molti cristiani, ponendo, infine, l’assedio agli edifici che ospitavano gli stranieri.

Dopo 55 giorni, un contingente di quasi 20.000 soldati tedeschi, italiani, giapponesi, russi, americani, inglesi, francesi ed austriaci, venne a liberare gli europei assediati, seminando il terrore ed operando terribili rappresaglie, nel corso di un vero e proprio saccheggio di Pechino.

L’imperatrice cinese, con tutta la sua variopinta corte, dopo aver dichiarato guerra praticamente al mondo intero, tagliò la corda, lasciando in braghe di tela i suoi soldati, che, infatti, furono pesantemente sconfitti dalla task force multinazionale.

Ancora più pesanti furono, tuttavia, le riparazioni che la Cina dovette pagare, e che di fatto causarono la fine del Celeste Impero, senza contare la smilitarizzazione del paese, che rimase sotto il controllo occidentale; esclusa la Manciuria, che i Russi si erano annessa direttamente.

Qualcuno forse noterà alcune sorprendenti analogie con altri fatti storici più recenti, con forze multinazionalcoloniali che fanno le birichine, e re che scappano lasciando l’esercito nelle peste: così va la storia, e non si può dare un’anima a chi non ce l’ha!

Il risultato della rivolta dei boxers fu la "politica della porta aperta" e, di fatto, la colonizzazione occidentale degli sterminati territori cinesi.

Ma, da quelle parti, il peggio doveva ancora venire.

Proprio la Manciuria divenne oggetto di contenzioso tra il Giappone e la Russia e rappresentò la causa principale del conflitto russo-giapponese, che fu, almeno per quel che riguarda la tecnologia militare, il vero prologo alla Grande Guerra, con trincee, filo spinato e mitragliatrici.

Così, mentre Francia ed Inghilterra stringevano tra loro un’alleanza nota come "entente cordiale"(1904), con la volontà di contrapporla alla Triplice Alleanza (1881-82) sottoscritta da Germania, Austria ed Italia, i rapporti tra lo Zar ed il Mikado si fecero tutt’altro che cordiali.

Fin dall’inizio, con la battaglia di Liao Yang (agosto 1904) ai Russi questa guerra non girò per il verso giusto: è pericoloso sottovalutare l’avversario, e gli orgogliosi generali zaristi non potevano credere che una popolazione che consideravano appartenere ad una razza inferiore potesse davvero dare del filo da torcere ad una grande potenza europea.

Purtroppo per loro, il Giappone aveva un potenziale bellico moderno ed imponente, truppe ben addestrate e cannoni di recente concezione: se il valore delle truppe nipponiche si fece vedere nella vittoria di Mukden (19 febbraio 1905), che, di fatto, diede al Giappone il controllo della Manciuria, ben maggiore fu lo stupore dei marinai della Flotta del Baltico, che, tre mesi dopo, a Tsushima, videro le corazze delle Navi di Linea nipponiche respingere i proiettili dei loro cannoni, caricati a polvere nera, mentre le cariche ad ecrasite dell’avversario perforavano con facilità le loro fiancate.

Per una delle molte ironie della storia, furono gli Usa a fare da mediatori tra le due nazioni, fino a giungere alla pace di Portsmouth (5.XI.1905) che sancì la fine del conflitto: trentasei anni dopo, lo scontro fra gli interessi americani e giapponesi nel Pacifico avrebbe portato gli aerosiluranti del Tenno a colpire Pearl Harbour.

In Russia, intanto, proprio nella fase cruciale della guerra russo-giapponese, si svolgevano le prove generali del grande dramma della rivoluzione d’ottobre, con la prima rivoluzione russa (22 gennaio 1905) e la "domenica di sangue"di San Pietroburgo (ad Odessa, in quei giorni, si ammutinava l’incrociatore Potëmkin), che avrebbe dato materia filmica a iosa al genio di Eisenstein, ed una grande battuta al ragionier Ugo Fantozzi.

Allarmato, lo Zar Nicola II si affrettò a firmare un’alleanza con la Germania guglielmina (accordi di Björkoe del luglio 1905) e concesse qualche riforma, che si sarebbe rimangiata di lì a poco, unitamente all’alleanza.

Nel frattempo, però, Guglielmo II aveva altre gatte da pelare: doveva arginare la penetrazione "pacifica" francese in Marocco e, per farlo, non esitò a presentarsi come paladino dei diritti degli indigeni (il sultano di Fes, nella fattispecie), riproponendo l’eterno giochetto dei lupi che, quando fa loro comodo, si travestono da agnelli per fregare altri lupi.

E, a proposito di lupi, poco più di un annetto dopo (1906) gli Inglesi convinsero, alla loro maniera, i ribelli Maji-Maji del Tanganica a tornare buoni buoni sotto le ali di Sua Maestà, accoppandone, ad ogni buon conto, 70.000, negretto più negretto meno.

La repressione di ogni tentativo (definito "criminale") di rivendicare la propria indipendenza da parte di popolazioni sottomesse all’Impero, venne, nel 1908, sancita addirittura da una legge del democraticissimo parlamento britannico (la Criminal law amendement act).

Solo che, sul piano internazionale, gli Inglesi erano gli angeli ed i Tedeschi erano le carogne, per pura antonomasia; così, nella conferenza tenutasi ad Algeciras proprio mentre le giubbe rosse facevano piazza pulita in Tanganica, si discusse solo della crisi marocchina, sancendo, di fatto, l’isolamento della Germania.

E, ad isolare la Germania, si sa che non c’è mai molto da guadagnare, in termini di conservazione della pace nel mondo.

Atto finale di questa manovra d’isolamento fu la firma da parte della Russia di un accordo con Francia ed Inghilterra che prese il nome di Triplice Intesa (31.VIII.1907), il cui primo atto di una qualche importanza fu la spartizione tra le tre potenze della Persia: tanto per far capire con chi si aveva a che fare!

Quando, nel 1911, i Francesi conquistarono Fes e gli Spagnoli si presero il nordest del Marocco, la Germania non esitò a mandare la cannoniera Panther davanti al porto di Agadir; episodio che viene, normalmente, indicato come uno dei motivi di riarmo internazionale che portarono allo scoppio della prima guerra mondiale: il che è verissimo, ma bisogna pure spiegare che un simile atto di forza aveva, come abbiamo visto, radici ben più profonde.

Sia come sia, la Germania negli accordi franco-tedeschi del novembre del 1911, fu consolata dal possesso di Camerun e Togo, mentre Francia e Spagna si spartirono il paese nordafricano.

Della guerra italo-turca del 1911-12 abbiamo già detto nel modulo precedente, qui basterà aggiungere che non favorì certamente il processo di distensione, in un ambiente che, come si è visto, era tutto un susseguirsi di guerre coloniali, alleanze per l’egemonia ed appropriazioni indebite.

Per tornare in Europa, nell’ottobre del 1908 avvenne un fatto che avrebbe avuto forti ripercussioni sugli equilibri europei, ed un suo peso nel precipitare degli eventi verso lo scoppio della Grande Guerra: la Bulgaria si rese indipendente dall’impero asburgico, e, per reazione, nonostante le rimostranze dello Zar, l’Austria inglobò la Bosnia-Erzegovina; a questo punto, a qualcuno cominceranno a fischiare le orecchie, dal momento che Serajevo è proprio da quelle parti.

Anche in Serbia la situazione era tutt’altro che tranquilla: dal 1903, a Belgrado regnava il filorusso (o, per meglio dire, antiasburgico) Peter I Karadjordjevic, che aveva preso il posto della dinastia regnante degli Obrenovic, sterminata nella notte dell’11 giugno 1903, perché accusata di favorire gli Absburgo: è superfluo ricordare che Gavrilo Princip, colui che sparò a Francesco Ferdinando e consorte, veniva dalla Serbia e faceva parte dell’associazione ipernazionalista e panslavista Ujerdinjenje ili Smrt (Unione o Morte).

A questo fiorire di nazionalismi, o, meglio, di razzismi esasperati, si deve aggiungere la grande frattura trasversale del razzismo antisemita, che attraversava tutto il continente: si pensi al caso Dreyfus, scoppiato nel 1894 in Francia, che divise il paese ben oltre la riabilitazione del capitano ebreo, avvenuta nel 1906, o ai pogrom russi del 1903, e si capirà che crudeltà e violenza non stavano soltanto dalla parte degli Imperi Centrali, ma erano una caratteristica comune di un’epoca di grandi ingiustizie e di grandi tragedie, che, spesso, la storia ha dimenticato, o ha voluto dimenticare.

Dobbiamo, a questo punto, parlare della Turchia.

L’impero ottomano (che, con quello asburgico, suo complementare speculare, scomparve dopo la prima guerra mondiale) era un gigante dai piedi di gesso, dal quale si staccavano pezzetti ogni poco: nel luglio del 1908, un movimento rivoluzionario nato tra gli ufficiali dell’esercito, i "Giovani Turchi", aveva deposto l’anticostituzionale sultano Abdul Amid II, al cui posto era salito sul trono Muhammad IV, e, da allora, la Sublime Porta non aveva fatto che prendere legnate a destra e a manca.

Cominciarono gli Italiani in Libia, e la cosa è nota, ma continuarono con ben altra energia, i paesi balcanici, da sempre sottoposti alla minaccia, se non al dominio dell’impero ottomano: nella prima guerra balcanica, che durò dall’ottobre del 1912 al maggio del 1913, Montenegro, Bulgaria, Grecia e Serbia diedero una severa lezione alle truppe turche; contemporaneamente, l’Albania dichiarò la propria indipendenza.

Auspice l’Inghilterra (ma pensa tu!), col trattato di Londra del maggio 1913, la Turchia restò praticamente senza domini in Europa, mentre si ingrandì la Bulgaria, che non esitò a dichiarare guerra alla Serbia per sancire la propria egemonia sui Balcani.

A questa, che è nota come seconda guerra balcanica, parteciparono, in chiave antibulgara, di nuovo Montenegro, Romania, Grecia e Turchia, fino alla pace di Bucarest, dell'agosto del 1913, che segnò un nulla di fatto in questa guerra da poveri per il dominio in quella zona.

Appare evidente che si trattava di un combattere "tutti contro tutti" in una politica di alleanze e di attacchi dettati solo dalla convenienza del momento, allo scopo di ottenere un predominio in una parte d’Europa in cui, venendo a mancare una vera potenza egemone, si era verificata una vacatio imperii.

Gli effetti di questo vuoto di potere furono, per molti versi, simili a quelli che abbiamo potuto drammaticamente constatare nei territori della ex Jugoslavia dopo il crollo del regime comunista federativo, o nella Russia postcomunista.

Quando un grande impero crolla, tutti i suoi satelliti lottano tra loro per decidere chi debba ereditarne lo scettro: è sempre stato così e, probabilmente, sarà sempre così.

Ricapitolando: in Estremo Oriente, dopo la messa fuori gioco della Russia, la questione era limitata ad Usa e Giappone, per quel che riguarda le sfere d’interesse; e la resa dei conti non sarebbe venuta prima di una trentina d’anni.

Le colonie africane davano un bel filo da torcere alla diplomazia occidentale, che doveva continuamente ricucire gli strappi causati dalle intemperanze di una Germania che si sentiva sola contro tutti (e che, anche per questo, sognava la Grossdeutschland) e dalla sottile politica a ragnatela di Francia ed Inghilterra, che, con la patente di democrazie al di sopra di ogni sospetto, allungavano gli artigli su mezzo mondo, massacrando ed imprigionando chiunque si opponesse al loro dominio.

Nei Balcani, gli staterelli passavano il tempo a farsi la guerra l’un l’altro, tanto per non perdere l’abitudine, e si sviluppava sempre più il nazionalismo panslavo, che non poteva non vedere nella Grande Madre Russia il proprio protettore naturale, in chiave antiaustriaca.

A questo bisogna aggiungere che il Kaiser Guglielmo II era un guerrafondaio, come la maggior parte dei sovrani regnanti d’Europa (si pensi ai nostri Savoia, che proprio degli Hoenzollern erano grandi ammiratori; specie Umberto I), idolatrato e imitato dallo stato maggiore austriaco di Baden e dal generale Conrad, che lo comandava (non dal vecchio imperatore Franz Josef, che ne aveva viste troppe per credere nella guerra!).

Dall’altra parte del Reno, però, c’era una Francia che non aveva ancora digerito Sédan e la solenne batosta del 1870: una Francia militarista e revanscista, accecata da mai sopite idee di Grandeur, che era stata sull’orlo di un golpe militare al tempo del maresciallo Mac Mahon, e che non cessava di guardare all’Alsazia e alla Lorena come terre irredente che dovevano, prima o poi, essere riportate alla Patria.

Quando, infine, il tricolore sventolò su quelle due tormentate regioni, la Francia aveva quasi due milioni di abitanti in meno, e in Europa niente sarebbe stato più lo stesso.

Dal 28 luglio del 1914, la parola sarebbe passata al cannone.