DALLA GRANDE DEPRESSIONE ALL’AVVENTO DEI FASCISMI EUROPEI 

        

    Il 1925 segnò un momento estremamente positivo per l’economia del vecchio continente: la Gran Bretagna aveva ritrovato la convertibilità in oro della sterlina, la Germania, grazie al piano Dawes, che le forniva enormi prestiti, teneva fede alle scadenze delle rate del proprio debito di guerra e sviluppava strepitosamente la propria rinascita economica ed industriale; proprio in quell’anno la produzione complessiva dell’Europa ritornò ai livelli di prima della Grande Guerra: sembrava, insomma, che il mondo si avviasse ad un periodo di benessere, sviluppo e prosperità.

    Tutto sembrava contribuire a creare nella gente un ottimismo ed un’aspettativa verso un’età dell’oro che la società industriale e capitalista pareva garantire.

    Anche in Europa cominciarono ad affermarsi l’organizzazione su vasta scala del lavoro e la derivante economia di scala, che presero il nome di “fordismo” o “taylorismo”, d’importazione americana; e fu soprattutto la Germania a far tesoro di questa dottrina, tornando ad essere, alla fine degli anni Venti, la maggiore potenza industriale europea; il che, come vedremo, la rese più vulnerabile di paesi ancora ad ampia vocazione agricola, come, ad esempio, l’Italia, alla crisi del ’29.

    In realtà, quell’America cui tutti guardavano con ammirazione e che tutti cercavano di imitare era un colosso dai piedi d’argilla, poiché la regola per mantenere il benessere economico era che questo non poteva che aumentare: per continuare ad esistere doveva espandersi in continuazione, secondo lo schema tipico della società consumistica, basata sul circolo vizioso produrre-consumare-produrre di più-consumare di più; con la continua necessità di creare nuovi bisogni ed aspettative nel mercato.

    

    In Italia, nel frattempo, il Regime puntava sulla riduzione delle importazioni, seguendo tre vie principali: difesa ad oltranza del cambio lira-sterlina alla cosiddetta “quota novanta”, che, però, non corrispondendo al valore reale della lira, in realtà la penalizzava; autosufficienza cerealicola (la cosiddetta “battaglia del grano” lanciata da Mussolini nel ’25), e aumento dei dazi protezionistici a difesa dei prodotti nazionali, altrimenti scarsamente economici e competitivi rispetto a quelli dei paesi tecnologicamente più avanzati.

    Proprio nel contesto della “battaglia del grano”, il Fascismo incentivò l’attività contadina, esaltando la figura del cittadino-agricoltore di matrice romana, ed operò importantissimi lavori di bonifica, che interessarono più di 100.000 ettari di territorio prima incolto, come avvenne per le paludi dell’Agro Pontino, distribuendole a famiglie di contadini, in modo che esse non lasciassero l’agricoltura per inurbarsi.

    Il punto massimo di questa (un po’ abborracciata) politica economica sarebbe stato rappresentato dal perseguimento dell’Autarchia, ossia dell’autosufficienza italiana, che le “inique sanzioni” contro l’Italia avrebbero incentivato.

    

    Giovedì 24 ottobre 1929, il mondo si svegliò dalla favola bella che lo aveva illuso: l’idea che la ricchezza potesse crescere all’infinito evaporò all’apertura della borsa di Wall Street, quel giovedì d’autunno, che sarebbe passato alla storia come il “giovedì nero”.

    Anche perché non si trattava di ricchezza vera, ma virtuale.

    Nei cinque anni che precedettero il disastro il valore dei titoli di borsa americani si era quadruplicato, infondendo negli speculatori un’incrollabile certezza nella solidità del sistema: questo innescò, coll’andare del tempo, una sconsiderata corsa al rialzo, dovuta alle speculazioni sfrenate, portando i titoli ad una sopravvalutazione critica; quando in qualcuno la fiducia venne meno, il mercato si sgonfiò come un palloncino.

    Mi spiego: la differenza tra il valore reale di un’azienda (immobili, capitali, macchinari, fatturato eccetera) ed il suo valore azionario non può superare una certa forchetta; perché se la disparità è troppo forte, prima o poi si scapicolla giù.

    Oggi esistono dei meccanismi di ammortizzamento degli eccessivi rialzi e ribassi: nel 1929 no; perciò, la prima crepa che incrinò il monumento di fiducia cieca nel mercato che era Wall Street, fece crollare tutta l’impalcatura.

    Naturalmente, nel panico delle svendite forsennate, le azioni scesero di molto sotto quel valore reale delle imprese che, come abbiamo visto, è l’unico dato non virtuale in tutta la faccenda, mettendo in crisi l’intero sistema capitalistico.

    Già martedì 29 ottobre (il “martedì nero”), la borsa nuovayorkese aveva perso tutti i guadagni dell’intero anno.

    Ma la crisi non doveva interessare solo la borsa: la domanda di beni di consumo scemò rapidamente, le vendite calarono, la produzione risultò esorbitante rispetto ai consumi, e l’industria si inceppò; il capitalismo prima maniera mostrava tutti i suoi limiti: iniziava la Grande Depressione.

    Poco dopo, entrò in crisi l’intero mercato agricolo, crisi che, con l’impossibilità da parte degli agricoltori, grandi clienti delle banche di prestito, di pagare i debiti, causò il crollo del sistema creditizio, col fallimento di molte banche.

    Nel 1933 le industrie Usa producevano la metà di quanto non facessero nel 1928, con, per conseguenza, il 25% della forza lavoro a spasso: 13 milioni di disoccupati.

    Naturalmente, questa ondata di sfiducia, se non di vero terrore, si trasmise all’Europa, da dove gli investitori statunitensi si affrettarono a ritirare i propri capitali.

    Chi ebbe la peggio, come abbiamo detto, fu la Germania, che si trovò con la produzione industriale dimezzata e 6 milioni di senza lavoro; il presidente americano Hoover (cui , in patria, venivano attribuite pesanti responsabilità per la crisi, tanto da battezzare le baraccopoli dei disoccupati “Hoovervilles”) propose, nella conferenza di Losanna (1932) di sopprimere i debiti di guerra tedeschi, ma non servì a nulla.

    Francia ed Inghilterra subirono la crisi, ma in termini meno drammatici, così come (per le ragioni già dette) l’Italia.

    In conclusione di questo paragrafo sulla crisi del’29, possiamo dire che, di fatto, fu proprio la drammatica situazione economica tedesca all’indomani del crollo di Wall Street ad abbattere la traballante Repubblica di Weimar, a determinare l’ascesa al cancellierato di Hitler e, soprattutto, a soffiare sulle braci dell’antisemitismo germanico, che, di lì a qualche anno, sarebbe tragicamente esploso.

    

    IL NEW DEAL

    

    In un certo senso, possiamo dire che il padre di tutte le versioni più o meno caserecce di Welfare State, ossia di stato sociale, sia stato F.D. Roosevelt, presidente degli Usa dal 1932 al 1945.

    In effetti, il suo New Deal, il nuovo corso che impose all’economia, fu il primo tentativo di conciliare il capitalismo con l’attenzione alle classi più deboli economicamente, riformando profondamente l’economia americana, che, fino ad allora, era improntata al puro e semplice liberismo d’iniziativa privata.

    In pratica, Roosevelt si lanciò in una politica economica basata su grossi investimenti pubblici e su di una partecipazione (e, quindi, un controllo) da parte dello Stato nell’attività economica.

    Questa idea avrebbe trovato forma compiuta nell’opera “Teoria generale dell’impiego, dell’interesse e della moneta”, che, nel 1936, fu pubblicata dall’economista inglese J.M. Keynes, che indicò proprio nell’intervento dello Stato a sostegno della domanda (anche a costo di peggiorare il bilancio)la soluzione del problema.

    Per gli economisti del secondo dopoguerra ( e per i politici semianalfabeti dei giorni nostri), Keynes sarebbe stato quello che fu Marx per i socialisti ottocenteschi: un mito.

    Tornando al New Deal, dall’istituzione della CWA (Civil Works Administation), derivò l’iniziativa di grandi opere pubbliche, che, oltre a dotare di infrastrutture il territorio, dessero lavoro a grandi masse di disoccupati, come la bonifica dell’intera valle del fiume Tennessee.

    Roosevelt diede origine ad una serie di agenzie governative, che garantissero il controllo dello Stato nelle attività, ma anche il rispetto delle regole che tutelavano i lavoratori (Social Security) attraverso un sistema pensionistico e di sussidi.

    Certo, il nuovo corso aiutò l’America ad uscire dalla crisi, tuttavia, senza guerre, gli Usa, allora come oggi, non galleggiano: diciamo che Roosevelt diede ai lavoratori americani riforme importanti e a tutto il popolo americano un’iniezione di fiducia; tuttavia, sarà solo la seconda guerra mondiale che raddrizzerà l’economia statunitense, visto che i disoccupati americani, ancora nel 1939, erano più di dieci milioni!

    Quindi, se certamente il New Deal è stato un momento importante nell’evoluzione della società capitalistica americana, non è stato certamente quella panacea che economisti improvvisati o storici altrettanto d’accatto vanno sbandierando.

    E’ vero che la volontà conta parecchio, ma non basta voler risolvere una crisi economica perché la crisi si risolva davvero!

    Oggi, e forse qualcuno se ne sarà accorto, navighiamo più o meno nella stessa direzione cui tendeva l’America nel 1929: la New Economy ha molti caratteri comuni con la Old Economy fordista, come i soldi facili e la mitologia che ne consegue.

    Stiamo attenti, perché di giovedì e di martedì nei nostri calendari ce n’è ancora parecchi; e non è detto che saranno tutti rosa!

    

    LA VIA AUTARCHICA

    

    Se le democrazie occidentali reagirono alla crisi del ’29 in chiave Keynesiana, da parte delle dittature socialnazionali l’intervento statale nel reggere il timone dell’economia fu ancora più drastico.

    La campagna elettorale che portò, nel 1932, la NSDP ad essere il primo partito tedesco, vide tra i punti principali del programma di governo di Hitler proprio la lotta alla disoccupazione; il che portò ai nazisti i voti del Lumpenproletariat e, in generale, delle classi lavoratrici.

    Insomma, quando Hindenburg, il 30 gennaio 1933, si decise ad affidare ad Hitler il cancellierato, a spingerlo a questa azione così terribilmente rivoluzionaria furono, da una parte le pressioni della classe operaia, ma, in assai maggior misura, quelle di Papen e dei poteri forti dell’industria tedesca, come i Krupp, i Thyssen e i Siemens; questo prova che l’idea nazionalsocialista di partecipazione statale all’impresa aveva attecchito anche nei salotti buoni dell’imprenditoria.

    Comunque sia, se dobbiamo indicare un comun denominatore nell’atteggiamento dell’economia nazista e di quella fascista, dobbiamo dire che entrambe miravano ad una generale autosufficienza dall’esterno: all’autarchia.

    L’autarchia appariva non solo il frutto di un poderoso sforzo nazionale, ma, soprattutto, avrebbe permesso ai due regimi, ampiamente boicottati dalla Società delle Nazioni, di affrancarsi dal ricatto degli embarghi e di perseguire una politica interna ed estera del tutto spregiudicate; senza contare che l’idea autarchica soffiava sul fuoco dell’orgoglio nazionale.

    In particolare, a partire da una certa data, che potremmo collocare intorno alla metà degli anni ’30, le due economie (naturalmente, quella tedesca in maniera più sensibile) si dedicarono ad un imponente riarmo; il che significava grandi commesse statali e, quindi, una dilatazione della spesa pubblica, esattamente come nel caso del New Deal americano.

    Solo che, anziché trattori, si producevano panzer!

    Un po’ sulla falsariga di quanto stava avvenendo in U.R.S.S., con i piani quinquennali, in Germania fu varato un piano economico quadriennale, che, tra il 1936 ed il 1939, cancellò dal vocabolario tedesco la parola “disoccupati”, facendo aumentare la produzione del 110%.

    Per gli operai, la presenza dello Stato nell’impresa significò, da un lato, la perdita di ogni diritto rivendicativo e sindacale e, dall’altra, la certezza del posto di lavoro e di un salario costante.

    In Italia, la partecipazione dello Stato all’attività imprenditoriale durante la crisi dei primi anni Trenta si concretizzò, soprattutto, nella creazione di due grandi enti: l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano, 1931) che era, in pratica, una banca d’investimento a favore dell’industria, e l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale, 1933), che, dal ruolo iniziale di ente per salvare banche ed industrie in crisi, divenne, nel 1937, un ente permanente di gestione; in pratica, cioè, divenne proprietario dei propri assistiti.

    

    Il risultato politico di questi diversi atteggiamenti economici e, più in generale, degli effetti della crisi del ’29, fu, in pratica, la cessazione di ogni collaborazione internazionale di ampio respiro, con le varie economie chiuse in se stesse e protette da dazi e gabelle, in un regime di isolazionismo e di sciovinismo.

    

   DITTATURE E DEMOCRAZIE  (  vedi il  filmato  )

    

    A metà degli anni ’30, la carta d’Europa si era andata delineando, con un blocco compatto di regimi autoritari di stampo nazionalista e nazionalsociale e un blocco assai più incerto e sfilacciato di democrazie di stampo liberale.

    Come noteremo, ad una politica estera aggressiva e velleitaria delle prime corrispose un atteggiamento incerto e tentennante delle seconde, che avrebbe portato al trattato di Monaco e alla corsa verso la guerra.

    D’altra parte, mentre all’interno delle democrazie era in corso un’aspra lotta politica, negli stati totalitari il consenso raggiungeva l’apice.

    Mussolini, ad esempio, che si era ingraziato i cattolici, con la stipula dei Patti Lateranensi (11/2/1929), si atteggiava a risanatore dell’economia e aveva conquistato, con la guerra d’Etiopia (1935-36), l’Impero: godeva, perciò, negli anni immediatamente antecedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale, di un indiscusso e vastissimo consenso popolare, che non era solo il prodotto della paura, ma, per buona parte, rispecchiava i reali sentimenti degli Italiani.

    Furono le dissennate prese di posizione a favore del nazismo e dell’entrata in guerra che alienarono al Duce le simpatie della gente; ma possiamo tranquillamente dire che, nel 1936, Mussolini era ancora il beniamino del popolo italiano.

    Normalmente, poi, si tende a considerare l’Europa degli anni ’30 divisa in tre grandi blocchi: Italia, Germania e, in seguito, Spagna, contrapposte a Francia ed Inghilterra, con una terza, vasta, zona grigia di paesi che non erano né con Cesare né contro Cesare: naturalmente, non era proprio così.

    In Europa, proprio negli anni’30, si diffuse tutta una serie di regimi dittatoriali, che, se non d’ispirazione direttamente fascista, erano certamente di impronta conservatrice, spesso ultracattolica e, naturalmente, ad economia corporativa, come quello austriaco di Dollfuss (1934) o quello portoghese di Salazar (1934).

    A questi modelli, si devono aggiungere le dittature d’impianto più tradizionale, che si svilupparono come funghi nei paesi economicamente più arretrati, come in Ungheria, Polonia, paesi baltici, Yugoslavia, Albania, Grecia, Romania e Bulgaria: questi regimi si basavano spesso su di una triade composta da potere politico, potere militare e proprietari terrieri, ed erano concordemente animati da un feroce anticomunismo; la qual cosa ha una qualche giustificazione, se consideriamo chi avevano per vicino di casa i paesi che ho citato!

    Oltre a questo, dobbiamo sottolineare che in quasi tutti i paesi europei, compreso il Regno Unito, erano sorti partiti di ispirazione fascista, come i Rexisti belgi, il PNS olandese, il BUF inglese o il PPF francese, sebbene si trattasse di formazioni poco numerose ed ininfluenti politicamente.

    Non così, invece, il movimento croato degli Ustascia di Ante Pavelic , la Guardia di Ferro di Codreanu, in Romania o le Croci Frecciate ungheresi, che ebbero un ruolo primario nella vita politica di quei paesi.

    La reazione a questo diffondersi della dottrina fascista non tardò a farsi vedere: nel 1935, l’U.R.S.S., per mezzo della Terza Internazionale, lanciò la politica dei Fronti popolari, che imponeva ai comunisti d’Europa di allearsi, in chiave antifascista, con socialisti e liberali.

    Nel 1936, il FP vinse le elezioni in Francia, e divenne primo ministro il socialista Blum, che, però, boicottato dai poteri forti, un anno dopo dovette dimettersi: nel 1938 si era tornati ad un governo radicale, con le sinistre all’opposizione.

    Anche in Spagna il FP si impose, nel 1936, ma la guerra civile lo travolse.

    Il tentativo di dividere le due principali dittature di destra, creando un’alleanza Francia-Gran Bretagna-Italia, in chiave antitedesca (il cosiddetto “fronte di Stresa” del 1935) sarebbe stato sconfessato, di lì a poco, dall’intervento italiano in Etiopia.

    Restava la Società delle Nazioni, ma, come vedremo, contava quanto il due di coppe; come avrebbe dimostrato proprio la guerra italo-etiopica.

    

    GLI ANNI DEL TERRORE COMUNISTA

    

    In U.R.S.S. , il 21 gennaio 1924, era morto Lenin: certo, era responsabile di diversi milioni di morti, ma, in confronto al suo successore, era stato solo un dilettante.

    Egli aveva governato un paese lacerato da una guerra civile e che ne era uscito stremato; perciò, Lenin aveva puntato su di una rinascita economica che partisse dalle campagne, per ridare fiato all’Unione Sovietica.

    Inaugurò, così la sua NEP, la nuova politica economica russa, macellando giudiziosamente chi vi si opponesse, o anche solo chi fosse stato un proprietario terriero di un certo tipo.

    Ma era, economicamente e politicamente, come ho detto, un dilettante.

    Il suo successore, il compagno Dzugasvili, georgiano rozzo ed astuto, più noto col soprannome di Stalin, avrebbe mostrato al mondo come si faceva a mettere in atto il comunismo reale!

    Tanto per cominciare, con Stalin si ebbe la completa identificazione tra Stato Sovietico e PCUS: il bene comune era noto solo agli apparati della Nomenklatura, perciò, chiunque andasse contro il partito era semplicemente un pazzo, perché non voleva il proprio bene: era un potenziale suicida.

    Stalin, infatti, aiutò qualche milione di questi pazzi a suicidarsi, in una sagra del cupio dissolvi che rappresenta, a tutt’oggi, il più sfrenato massacro di cui la storia tramandi (si fa per dire) memoria.

    I primi a fare i conti con la sete di sangue di Stalin furono i kulaki, i contadini ricchi, che, a partire dal 1929, vennero sterminati come sabotatori della rivoluzione.

    Nella sua ascesa al potere assoluto ed incontrastato, Stalin allontanò uno ad uno dal partito tutti i possibili oppositori, o anche solo chi poteva dargli ombra: Trotckij, Bucharin (il continuatore della NEP), Zino’ev e Kamenev, innanzi tutto.

    Puntualmente, alla morte civile, fece seguito quella fisica, e uno ad uno, i “vecchi bolscevichi” sparirono nelle grandi repressioni degli anni Trenta, note al mondo come “Purghe”.

    Quando fu ben sicuro della sua posizione, Stalin cominciò a creare la nuova Unione Sovietica: un sistema totalitario basato su di una onnipotente burocrazia, teso a ferrei obiettivi di crescita industriale ( i cosiddetti “piani quinquennali”) e retto col terrore da una casta di poliziotti politici coperti di privilegi e al di sopra della legge, la NKVD, che fu protagonista dei terribili massacri e dei processi farsa del 1934-38, che colpirono, dapprima, le personalità politiche, poi i militari, i tecnici, e, infine, a casaccio, un po’ tutti quanti.

    La causa occasionale che determinò l’inizio del terrore staliniano, fu l’omicidio (1934) di uno dei capi sovietici, Kirov: le modalità con cui gli spararono, nel suo ufficio, lasciano, però, chiaramente intendere che, in realtà, c’era lo zampino della NKVD.

    Da quel momento, nessuno sfuggì al terrore staliniano: bastava una parola, un cenno, e i figli denunciavano i padri, le mogli i mariti.

    Molti furono fucilati senz’ altro che un processo sommario, altri subirono processi pubblici grotteschi, in cui, anche se innocenti,  veniva ordinato loro di confessare colpe del tutto inverosimili, dicendo che dovevano farlo per il Partito.

    E quelli, disciplinatamente, confessavano!

    La maggioranza, milioni e milioni,  sparì nei gulag del grande Est, e se ne perse memoria.

    Quando, nel 1953, Stalin morì, ci fu chi, in Italia, scrisse che era morto il padre della libertà e della democrazia.

    Qualcuno di quelli che lo scrissero, siede oggi nel nostro Parlamento, e si permette di giudicare la coscienza democratica degli altri!