GLI ERRORI DEL “ MODELLO ITALIANO “
Articolo da Repubblica del 7/ marzo 2005
Tutto cominciò con la scelta della ‘filiera automobilistica. Come ha ricordato Colajanni la settimana scorsa su queste pagine,Fiat, IRI ed BNl, operando di conserva con una efficacia e concordia oggi inimmaginabile, diedero all’Italia la più vasta rete di autostrade in Europa, un paio di piccoli modélli di automobile accessibili alle tasche degli italiani e la “potente benzina italiana”, che in realtà veniva per lo più dal Medio Oriente, distribuita in tutto il paese. Fu un grande salto che diede al paese un abbrivio di una diecina d’anni, innescando una quantità di altri fenomeni”virtuosi. Diversamente si comportò il Giappone, che attese altri quindici anni prima di scegliere la filiera automobilistica, preferendo prima, rinforzarsi nell’industria dei beni di investimento; Come ebbe a notare a suo tempo Augusto Graziani, quella italiana fu una scelta troppo precoce, perché operata ad un livellò di reddito procapite che era la metà di quelli del resto d’ Europa. Mise la nostra economia, per un decennio, su una veloce direttrice di sviluppo ma assorbì una parte troppo grande dei redditi procapite degli italiani.Comprata la macchina e contate le spese per tenerla su strada e farla circolare, restava ai nostri concittadini del tempo poco da spendere in altri beni di consumo o per cambiare la macchina stessa. Nel 1963, inoltre, la locomotiva italiana si fermò,bloccata dalla prima crisi post-bellica di bilancia dei pagamenti (se si esclude l’allora malata cronica Gran Bretagna); Nel 1966 si fermò brevemente anche la Germania e con essa l’intera Europa registrò una pausa. Ne soffrirono 1e esportazioni italiane, che sostituivano la domanda interna non ancora riavutasi dallo stop del 163-64.
Cominciò così l’infausta opera di coloro che vedevano qualsiasi altra occasione di spesa privata come conflittuale con la domanda di automobili.
Dalla costruzione della ferrovia direttissima Milano-Roma, con la tratta Roma-Firenze iniziata appunto nel 1966 e bloccata o ritardata fino ai primi anni novanta. Con il blocco della televisione a colori, con la strozzatura della Olivetti Calcolatori Elettronici, ricordata da Colajanni, della quale fu responsabile diretto Visentini, ma alla quale parteciparono tutti i più illuminati esponenti del Gotha industrial-finanziario di allora.
In verità, oltre ad avere preso, la scorciatoia automobilistica innanzitempo, il capitalismo italiano del dopoguerra dovette presto accorgersi dell’usura precoce del meccanismo finanziario divisato da Alberto Beneduce per dotare il paese di infrastrutture e persino di strutture industriali. Esso si basava sulla emissione di obbligazioni da parte di istituti di credito speciale, garantite dallo stato e vendute .ai risparmiatori, i cui proventi andavano a finanziare investimenti destinati a generare introiti sicuri in settori protetti dalla concorrenza internazionale, e quindi in un ambiente quasi completamente privo di rischio.
Con l’entrata in vigore della liberalizzazione doganale e con la progressiva evanescenza• dei controlli valutari, sia il settore industriale che quello finanziario italiano furono investiti dalla concorrenza estera, proprio quando venivano meno i differenziali saI anali tra il nostro e gli altri paesi europei e persino il pool di manodopera a buon mercato rappresentato dal Mezzogiorno era messo a disposizione dell’intera Europa sviluppata.
Il sistema Beneduce aveva funzionato a meraviglia in un paese in cui finanza e industria vivevano al riparo della concorrenza estera. Ma non’ poteva tollerare la liberalizzazione. E infatti cadde, pesantemente, quando si cercò di adoperarlo per il potenziamento dell’industria chimica usando come base i proventi della nazionalizzazione dell’ industria elettrica. Nel 1905 si erano nazionalizzate le ferrovie e con i proventi i loro proprietari erano riusciti a creare una poderosa industria idroelettrica, naturalmente in regime di monopolio interno e di protezionismo totale. Quando si pubblicizzò l’elettricità, la SIP parastatale, il solo ex-proprietario che si dedicò.,al potenziamento di una industri operante in regime di monopolio e protezione, quella telefonica,riuscì splendidamente nel1’impresa. I costruttori dell’ industria petrolchimica, invece, nonostante avessero a disposizione il brevetto del polipropilene del professor Natta e l’acume finanziario del genero di Alberto Beneduce, Enrico Cuccia, andarono presto ad arenarsi contro le difficoltà della fusione tra Montecatini ed Edison, contro la concorrenza di rivali italiani che costituirono un oligopolio competitivo invece che collusivo,. e quindi si dedicarono ad una guerra dei prezzi, e infine furono messi fuori gioco dalla quadruplicazione del prezzo della materia prima con la crisi del petrolio del 1973 . Dopo quella crisi, i nuovi.venuti sulla scena petrolchimica mondiale si trovarono di fronte ad una concorrenza senza quartiere da parte delle imprese chimiche più forti del mondo. Ricordiamo che insieme all’Italia, anche la Polonia di Edward Gierek aveva tentato l’avventura petrolchimica, costruendo la propria industria sui prestiti internazionali. Il primo shock petrolifero, se distrusse l’industria italiana, provocando un terremoto finanziario di notevole potenza nel nostro paese, in Polonia mise in crisi addirittura l’intero regime politico, dando I ‘avvio al crollo del comunismo in quel paese e altrove. La fine di Bretton Woods, con l’inaugurazione del non-sistem monetario dei cambi flessibili, come lo chiamò Triffin, funzionò come un vero e proprio deus ex machina per l’economia italiana perché permise trent’anni, di svalutazioni che portarono il cambio della lira nei confronti del marco da 163 a 1000 . La politica di Stop-Go seguita senza interruzione dal nostro paese negli anni settanta, infatti, sottopose la grande industria ad una incertezza sui volumi della produzione e sulI‘utilizzazione della capacità installata tale da sconfiggere le capacità gestionali di imprenditori e manager, ovviamente impreparati al compito, iniziando una ininterrotta crisi dalle grandi imprese, emorragia di operai e tecnici dalla quale ebbe vita il secondo capitalismo italiano, quello delle piccole imprese, che tanti studiosi e tanto pochi imitatori avrebbe trovato in Italia e all’estero.
Si potrebbe dunque concludere che grande industria e grande finanza italiana, allevate alla scuola del protezionismo e del monopolio, si arresero di fronte ai problemi introdotti dalla liberalizzazione dell’economia italiana e mondiale. Dalla loro resa sono nati sia i problemi che abbiamo ancora da risolvere, sia le soluzioni, ovviamente insoddisfacenti, che abbiamo inventato finora.
Il sistema bancario italiano, ad
esempio è stato profondamente influenzato dalle crisi di bilancia dei pagamenti
che si sono susseguite nel nostro paese a partire dal 1963 . Esso è stato
infatti sottoposto a partire dai primi anni settanta a un regime di stretto
controllo dei cambi, che ha impedito ai suoi manager e impiegati di imparare a
vivere in un sistema finanziario internazionale libero, sfruttando le nuove
possibilità operative da esso offerto. Le continue frenate impartite al sistema
delle imprese dalla politica economica italiana non solo hanno costretto gli
imprenditori a delocalizzare una quantità di funzioni fuori dell’azienda per
ridurre i rischi, ma ha insegnato ai loro banchieri a ricorrere al
pluriaffidamento, col quale tutte le banche affidano pro-quota tutte le imprese
e in tal modo cercano anch’esse di ridurre i rischi del credito, senza
strozzare le stesse imprese ad ogni stretta di politica monetaria. E’ evidente
che dal nanismo industriale non potesse venire un incentivo al gigantismo
bancario, ma piuttosto il suo contrario. Esso è stato anche, all’inizio,
fortemente voluto dalle autorità politiche e monetarie del paese, timorose di un
“oscuro potere bancario” che si diceva avesse dominato il paese tra il 1890 e i
primi anni trenta del novecento. Successivamente, la tendenza è divenuta
strutturale per il sistema economico. Solo a partire dagli anni più recenti,
le autorità monetarie hanno cambiato rotta, dedicandosi a promuovere un
movimento di concentrazione e concorrenza nel sistema bancario. Esso ha
avuto un certo successo, ma non ha potuto raggiungere obiettivi come quelli
ottenuti in Spagna nella ricostruzione che ha seguito il crollo del sistema
bancario negli anni settanta, e che ha visto il sorgere di almeno un paio di
istituti di dimensioni di “global player”. Allo stesso tempo, infatti, sono
intervenute a spingere il sistema in direzione opposta le conseguenze della
‘legge sulle fondazioni bancarie, che lo hanno istradato su un binario ancora
una volta peculiare al nostro paese, nel quale le fondazioni proprietarie
istigano le banche a distribuire a loro rilevanti utili, che sono adoperati a
fini del tutto diversi dal consolidamento patrimoniale e dalla cres cita, anche
transfrontaliera, delle stesse banche. Così come peculiare all’Italia è la nuova
tendenza, che vede imprenditori, debitori importanti delle banche, divenire
azionisti, talvolta anche strategici per il controllo delle banche stesse.
E’ evidente, dunque, che tutti i fenomeni elencati, e i molti altri che ad essi potrebbero aggiungersi, richiamano le loro origini a una incapacità di adeguare il modello inventato da Alberto Beneduce per far fronte alle sfide del ventennio tra le guerre mondiali alla nuova realtà della liberaIizzazione e globalizzazione dei decenni recenti. Con un metodo tutto italiano di evitare le rivoluzioni copernicane, si sono escogitati sempre più bizantini epicicli per adeguare le istituzioni e gli assetti di potere esistenti alla mutata realtà, fino a trasformare l’intera economia italiana in una struttura che non rassomiglia a nessuna delle altre economie allo stesso livello di sviluppo, in Europa e nel resto del mondo.
Nessun altro paese sviluppato, ad esempio, esibisce un tasso di patrimonializzazione delle famiglie rispetto al reddito alto come quello italiano, mentre intermediari finanziari e imprese si confrontano, assai meno favorevolmente, sempre rispetto agli stessi indici, con i loro equivalenti stranieri . Non deve meravigliare, allora, che avendo affidato alle famiglie così elevate risorse patrimoniali, si susciti poi ripetutamente la tendenza a espropriarle in parte delle medesime con fantasiose proposte di investimento finanziario, alle quali l’impreparazione professionale dei singoli le fa acconsentire, in una atmosfera che ricorda quella delle folle che si affidano ai taumaturghi che promettono miracoli.
D’altro canto, in quale altro paese sviluppato si sta costruendo, rapidamente e senza che i cittadini se ne dolgano più di tanto, un vero e proprio “stato patrimoniale”, che ricorda, ahimè, le precedenti esperienze italiane deIle signorie e dei principati? Questa volta, purtroppo, a questa involuzione non si accompagna nemmeno il fasto delle corti rinascimentali e lo splendore delle arti che in esse rifulsero. A meno di non voler confondere le attuali etere televisive con la Fornarina di Raffaello o con la Dama con l’Ermellino di Leonardo da Vinci.